L'orgoglio fuori stagione dei vecchi fantasmi Dc

Dopo l'elezioni di Mattarella alla presidenza della Repubblica si rivedono tutti i vegliardi, da De Mita a Rognoni. Ma non è una rinascita: è nostalgia

L'orgoglio fuori stagione dei vecchi fantasmi Dc

La voglia di «rifare la Dc», gridata o sussurrata, fa molta impressione. Un'impressione certamente eccessiva perché il grande e complicatissimo contenitore cattolico che si teneva insieme a causa della guerra fredda, non potrà più risorgere visto che non c'è più la guerra fredda e ognuno è libero di andare - ed essere - dove e chi gli pare e piace. Tuttavia è certo che il presidente Mattarella appaia quel che è sempre stato ed è: un democristianone dalla canuta criniera, l'aria più enigmatica che sorridente, anche se non si può (e non si deve) fare della fisiognomica, altrimenti si finisce col disegnare i comunisti con tre narici come faceva Giovannino Guareschi nella serie di vignette della serie «Contrordine compagni».

Però è vero, non c'è niente da fare. Si sente e si legge ovunque di cene, soprassalti passionali, amarcord e come eravamo. È veramente l'effetto rebound dell'elezione di Mattarella al Quirinale, decisa da un ex popolare (democristiano) come Renzi. Ciò dipende dall'effetto Rorschach, il test delle macchie d'inchiostro: la macchia non rappresenta nulla, ma una figura indistinta ti richiama alla mente qualcosa. Mattarella, che non è certo una macchia insignificante, richiama alla mente di tutti i democristiani, la nostalgia per la Dc che non c'è più.

Più che un ritorno di impossibile fiamma democristiana, qui siamo di fronte al fenomeno dei revenant , a quelli che cercano di tornare dopo la rivoluzione francese, dopo la caduta del fascismo, dopo che qualcosa di definitivo è accaduto, ma che lascia gli sconfitti senza pace. E così abbiamo visto un Paolo Cirino Pomicino - una delle intelligenze più brillanti di quel mondo - gioire in televisione per il ritorno democristiano di un prototipo democristiano come Sergio Mattarella. E abbiamo letto una dichiarazione straordinaria di Ciriaco De Mita, mente prodigiosa ma incomprensibile, in cui l'ex segretario Dc, definito da Gianni Agnelli «un intellettuale della Magna Grecia» dice che Mattarella è un ingenuo, affrettandosi a specificare «in senso buono».

Del resto, una punta di umana gelosia è non soltanto percettibile ma persino giustificabile, visto che Mattarella faceva ciò che De Mita gli chiedeva impartendogli le direttive, la più famosa delle quali impose le dimissioni a lui e ad altri quattro ministri democristiani per contestare l'approvazione della legge Mammì che aboliva il monopolio Rai e consentiva l'esistenza sul territorio nazionale delle televisioni di Silvio Berlusconi. I cinque erano guidati da Mino Martinazzoli d'accordo con De Mita e oltre a Mattarella c'erano Calogero Mannino, Riccardo Misasi e Carlo Fracanzani. Di questi sono rimasti in vita e in attività De Mita, Mattarella e Mannino ed hanno tutti una memoria epica di quella decisione di venticinque anni fa. E poi è tornato alla visibilità Virginio Rognoni, un elegante vegliardo di 91 anni, il quale era ministro degli Interni quando Piersanti Mattarella, fratello del presidente appena eletto, fu assassinato da Cosa nostra. Si è discusso se nell'ultimo incontro fra Rognoni e Piersanti Mattarella quest'ultimo avesse chiesto aiuto perché si sentiva minacciato, oppure - come conferma adesso Rognoni -, si limitarono a parlare di politica. La questione non è di poco conto perché non è stata mai fatta luce su quell'antico delitto.

Rognoni appartiene all'epoca d'oro, per così dire, della Prima repubblica. E oggi questi personaggi, se vivi, si sentono orgogliosi e qualcosa di più per l'elezione di uno di loro al Quirinale. A loro si possono aggiungere i giovani dell'ultima leva come lo stesso Renzi, Enrico Letta, Alfano, Lupi e tanti altri. Ma non scorre fra loro lo stesso fremito e la stessa nostalgia. Rocco Buttiglione non ha certamente nulla a che fare con Mattarella con cui litigò bruscamente quando la sinistra Dc occupò la sede della Democrazia cristiana, lui gli fece staccare la luce e il gas prendendosi una serie di contumelie di cui ancora si sente l'eco. La storia degli ultimi venti anni dimostra che il partitone cattolico si separò definitivamente in due tronconi politicamente inconciliabili fra loro: quello di centrosinistra con gli ex comunisti e quello di centrodestra alleato con Berlusconi.

Davvero quello che resiste è «l'orgoglio democristiano»? O non, piuttosto, il ricordo democristiano. Ricordo quel che disse Francesco Cossiga, un super democristiano orgogliosissimo, quando l'Unione Sovietica chiuse i battenti e il Pci fu costretto a cambiare nome: «Questa non è soltanto la fine del comunismo, ma è la fine di tutti noi, di tutti i partiti che sono esistiti dividendosi fra alleati e nemici del comunismo. Dunque è anche la fine della Democrazia Cristiana, accetto scommesse». Vinse ovviamente la scommessa, ma a prezzo di un vero linciaggio perché nella vecchia Dc in stato pre agonico nessuno voleva sentir dire che il partito era morto e che non sarebbe mai più rinato, se non sotto forma di piccoli partiti e raggruppamenti di reduci e di nostalgici.

L'insediamento di uno di loro di nuovo alla testa dello Stato repubblicano suscita, sentimentalmente parlando, una chiamata alle antiche armi, ma di qui a vedere - o temere - la rinascita del partito cattolico di massa in cui convivevano delle «correnti» che erano altrettanti partiti nel partito, ce ne corre.

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