La Francia rinnegata e impotente ferita nel giorno della sua identità

«Svuotata» di valori dall'Europa, ora non sa più reagire. E la festa nazionale diventa il requiem della sua anima

La Francia rinnegata e impotente ferita nel giorno della sua identità

Nei duecento e passa anni che ci separano da quel 14 luglio del 1789 che segnò la fine dell'Ancien régime sugli spalti della Bastiglia espugnata e l'inizio della Francia moderna, quella data è divenuta un simbolo: incarna la storia, la politica, le istituzioni, ovvero il racconto e la rappresentazione che una nazione dà di se stessa. È anche per questo che il massacro terrorista e islamico fondamentalista l'altro ieri perpetrato a Nizza ferisce la Francia più di quanto abbiano potuto le stragi di Charlie Hebdo e del Batàclan: non rimanda a una punizione, orribile, ma a suo modo esemplare, contro uno stile di vita e un modo di pensare considerati blasfemi: il libertinaggio del corpo e della mente da bruciare con il fuoco purificatore dell'integralismo. Ha a che fare con il Paese in sé, con il Paese in quanto tale.

Che tutto ciò avvenga in un profondo momento di crisi, politica, economica, sociale, colora ancor più di nero un quadro già luttuoso e richiama alla mente l'analisi sconsolata di Dominique Villepin, allora primo ministro, all'inizio degli anni Duemila: «Il dramma di un Paese accecato e che cammina a tentoni». Solo che da allora la Francia cieca ha smesso persino di muoversi.

L'immobilità è data dalla mediocrità. Mai come in questo momento i francesi sono consapevoli del livello miserevole e miserabile della classe politica che è alla loro guida, persa e presa nella messa-in-piega ai capelli del suo presidente della Repubblica, completamente scollata da quelli che sono i bisogni, i sentimenti e le paure del cittadino comune, votata a una guerra fratricida per assicurarsi meglio le poltrone del potere, gonfia di una retorica vuota, supponente e sterile. Confrontata con il mondo reale e i suoi rapporti di forza, la già difficile situazione del Paese si fa ancor più pericolosa per il sentimento di impotenza, di discredito e di vergogna che la politica porta con sé. Come aveva predetto Montesquieu, «la corruzione di ogni governo comincia quasi sempre con la corruzione dei principi». Vissuta nel mito di uno Stato gestore e garante del potere e a cui veniva assegnato il compito di assicurare la coesione sociale, la perdita di ideali, di esempi, di significati propri a un immaginario che nei secoli se n'è sempre nutrito, rende la società francese particolarmente vulnerabile e rischia di farla sprofondare in un clima di rivolta demagogico quanto distruttivo.

Proprio perché siamo partiti da una data-simbolo converrebbe un momento soffermarci sul paradosso e/o il mistero francese, ovvero il suo essere una nazione costretta da quarant'anni a questa parte a rinnegare sé stessa. Quel 14 luglio del 1789 segnava sì la fine dell'Antico regime, ma Napoleone prima, la Restaurazione dopo, riportarono quella Rivoluzione nell'alveo di una storia comune, ricostruirono i legami fra il prima e il dopo, crearono quella narrazione che proseguì, pur fra scosse, sconfitte, rivolgimenti, fino alla metà del XX secolo. Come ha notato Sergio Romano, l'idea di progresso in Francia è stato più che altro «un moto continuo verso modelli incompiuti di perfezione perduta: la società della monarchia prerivoluzionaria, la repubblica giacobina, la grandezza dell'impero, la monarchia liberale degli Orléans, il populismo autoritario del secondo Napoleone, l'utopia libertaria della Comune».

Tesa fino ad allora a ricostruire il passato, dagli anni Settanta in poi del Novecento la Francia è entrata in crisi via via che la nuova visione europea, tecnocratica ed economica, le toglieva quel carattere nazionale che le permetteva una sorta di «anti-storicità» dove il futuro non era atteso come una panacea, ma rientrava nel solco di un presente di poco differito. L'affermazione di François Mitterrand, «sono l'ultimo presidente della Repubblica francese. Dopo di me ci saranno soltanto dei burocrati», racconta non tanto l'alterigia di un politico di rango, ma la consapevolezza che stavano cambiando le regole del gioco e che il potere decisionale cambiava di mano...

Rispetto ad altre nazioni, la perdita di sovranità è dalla Francia particolarmente sentita perché simbolicamente è in essa che come nazione si è sempre riconosciuta, un unicum in cui l'assolutismo regio e la trinità repubblicana liberté-égalité-fraternité hanno in fondo marciato separati per colpire però uniti... Per farle accettare questa perdita, le élites politiche succedutesi negli anni hanno da un lato favorito la dissoluzione del discorso identitario, caricandolo di negatività, dall'altro hanno premuto l'acceleratore dei diritti, dell'individualismo e dell'egalitarismo per meglio corrodere un tessuto sociale altrimenti portato alla tenace difesa della propria ragion d'essere.

L'irrompere del terrorismo islamico sul suolo francese ha sconvolto ancor più un terreno già disastrato, ma porta al paradosso che per combattere una minaccia del genere bisogna fare ricorso proprio a quell'orgoglio identitario così abbondantemente picconato e a una capacità di risposta politica nazionale, e quindi sovrana, così disinvoltamente liquidata in nome di un europeismo tanto generico quanto negatore di ogni specificità. Bisogna insomma ricorrere ai simboli, e proprio nel momento in cui quei simboli risultano svuotati...

Diceva Renan che la nazione è «un plebiscito quotidiano» e forse bisognerebbe cominciare a chiedersi se davvero si possa costruire un'Europa prescindendo da ciò che pensano e vogliono gli europei. I cittadini, non i politici-burocrati.

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