Fratelli coltelli

La crisi interna ha acceso lo scontro tra le varie anime del Pd. Ecco chi sono i protagonisti della "faida" dem

Fratelli coltelli

La crisi interna ha acceso lo scontro tra le varie anime del Pd. Accuse, fazioni e scissioni che hanno evidenziato il malessere dem in un partito che sembra andare verso direzioni opposte. Ecco dunque i profili dei protagonisti di questa "faida" tra "fratelli coltelli".

Orfini, il trasformista s’è scoperto renziano - N e ha fatta di strada Matteo Orfini, da quando era uno sconosciuto pupillo di Massimo D’Alema ad oggi che, dopo aver gestito da commissario del partito a Roma la delicata fase degli scandali di Mafia Capitale, è in procinto di traghettare il partito dall’assemblea al congresso dopo le imminenti dimissioni di Renzi. Sono lontani i tempi in cui fondò la corrente dei Giovani Turchi con Andrea Orlando, prima di diventare presidente del Pd quando Gianni Cuperlo lasciò l’incarico il polemica con il segretario Pd. In diverse occasioni Orfini ha criticato Renzi, ma mai nel modo aggressivo con cui lo hanno fatto tanti suoi colleghi e compagni di partito. E ha sempre trovato un modo di collaborare con l’ex premier diventando uno dei suoi interlocutori, seppure da «avversario». Oggi è uno dei più ortodossi dei filorenziani.

D’Alema, il rottamato esperto di vendette - A nche se l’interessato nega, non si può non pensare andreottianamente che la causa di tutto questo fiele contro Renzi sia il mancato ottenimento del ruolo di «ministro degli Esteri europeo» che invece è andato a Federica Mogherini. E comunque, ridendo e scherzando, alla tenera età di 67 anni, Massimo D’Alema sposta ancora consensi. È da quando ha 26 anni che bazzica i comunisti e da trent’anni che è in Parlamento. Li ha passati e ripassati tutti: Pds, Ds, Ulivo, Pd, è stato il primo ed unico esponente del Pci (allora già disciolto) a ricoprire la carica di presidente del Consiglio. Dopo essersi masticato tutti, ora la sua vendetta cade sul giovane Renzi, colpevole solo di essere come lui, ma con 25 anni di meno. Mosso più da una sorta di rivendicazione personale nei confronti del fiorentino che da istanze politiche, fa ogni mattina a botte con la sua boria.

Franceschini, il fedele di ogni maggioranza - Dario Franceschini è l’uomo di tutte le maggioranze del Pd, da sempre abilissimo nel piazzare i suoi nelle liste elettorali e nei posti che contano. L’attuale ministro dei Beni Culturali controlla un ampio gruppo di parlamentari che lo rende uno degli azionisti di maggioranza del Partito democratico. Fedele alla linea per antonomasia, è stato accanto a tutti i segretari. Considerato un abile navigatore, sempre pronto a saltare verso eventuali poteri emergenti sulla scena politica. Una caratteristica riassunta dall’ex premier Renzi in una celebre battuta che faceva il verso alla pubblicità Barilla: «Dove c’è Franceschini c’è maggioranza». In passato è stato considerato un «traditore» di Bersani, al punto che i bersaniani chiamavano lui e Letta «Bruto e Cassio» durante i tentativi dell’ex segretario di formare un governo dopo le elezioni del 2013.

Orlando, l’anti Renzi voluto da Re Giorgio - Andrea Orlando è cresciuto nei Ds con la segreteria di Fassino, che nel 2003 lo ha chiamato a Roma come vice responsabile dell’organizzazione. Quando i Ds si sciolgono, nel 2007, aderisce al Pd e diventa responsabile dell’organizzazione della segreteria nazionale. È sempre stato molto vicino a Veltroni e con quest’ultimo segretario è stato portavoce del Pd, incarico confermato da Dario Franceschini. Nel 2009 Pier Luigi Bersani lo nomina presidente del Forum Giustizia del partito. In Parlamento entra nel 2013 e diventa prima ministro dell’Ambiente, poi della Giustizia. Ora rappresenta l’anima di sinistra del Pd, che però non ha mai giustificato la scissione ed è il più probabile competitor di Renzi alle prossime primarie. È pupillo di Napolitano, i giornali hanno raccontato che l’ex tesoriere dei Ds, Ugo Sposetti, lo ha designato erede della «ditta Pc».

Veltroni, il buonista col progetto sbagliato - «Non sono mai stato comunista». Un’affermazione pesante per l’ex figiciotto (iscritto all’organizzazione giovanile del Pci, ndr) ritratto in gioventù assieme a Fernando Adornato e a Pier Paolo Pasolini durante una manifestazione. Ma Walter Veltroni è sempre stato così. Hegeliano. Ha cercato la sintesi di opposti inconciliabili pur di evitare frizioni, rotture, contrasti. Nemmeno D’Alema, che gli sbarrò la strada per il Bottegone nel 1994 e che lo fece saltare assieme a Prodi nel 1998, è riuscito a estorcergli un commento velenoso. Veltroni è stato il primo segretario del Pd, quello del Lingotto (che oggi Renzi cerca di scimmiottare), quello della «vocazione maggioritaria», quello del «ma anche». Il fallimento del Pd odierno è anche il suo: comunisti e dc di sinistra sono rimasti sempre separati in casa. Gli album Panini allegati all’Unità sono ciò che resterà di lui.

Bersani, il collezionista di «non vittorie» - Da Bettola con furore, Bersani non ne ha mai imbroccata una. Tra quelli che hanno ottenuto un giusto diritto all’oblio, il primato va a lui. L’uomo che «ha non vinto», che doveva smacchiare il giaguaro e che, invece, ha smacchiato se stesso. Riuscì a perdere elezioni praticamente già vinte ma malgrado questo nel Pd gli permettono ancora di parlare. Bersani che oggi si batte strenuamente per ridare dignità al Pd, non si è accorto che a perdere il rispetto è lui, insieme alla sua faccia: non solo ha gettato ai porci la leadership, ma oggi, nel gran gioco della scissione, si fa manipolare dal gran maestro D’Alema. Un burattino nelle mani di chiunque passi (lo ricordiamo in versione zerbino quando venivano approvate, con i voti del suo Pd, le misure del peggior governo della storia repubblicana, Monti), recita benissimo la parte dell’eterno sconfitto dagli occhi lucidi.

Speranza, il «parvenu» che nessuno ascolta - Nel film «L’assemblea di condominio del Pd», dove la comicità si mischia col genere splatter, il ruolo di miglior attore non protagonista va a Roberto Speranza. Salito dalla Basilicata a Roma con la piena, il 38enne «Robertino» si è montato la testa. Dopo il fortunato colpo di diventare consigliere comunale Ds a Potenza a 25 anni, la iella si affacciata subito sul suo cammino: conosce Veltroni che lo nomina nel comitato nazionale dei Giovani Democratici e si innamora di Bersani che sostiene alle primarie, guadagnandosi il seggio in Parlamento. Cattivi presagi. Lo fanno capogruppo Pd alla Camera, ma se ne va stizzito additando Renzi. Oggi crede (solo nella sua testa) di guidare la cordata dei tre tenori verso la scissione. Come il migliore dei parvenu si autoconvince di poter vincere la leadership. E si fa crescere la barba per sembrare più autorevole. Ma non ci casca nessuno.

Rossi, il finto socialista gioca alla rivoluzione - Ha seguito la scia di Renzi per farsi ricandidare a governatore, concedendo un aeroporto e qualche assessore. Scontato che una volta rieletto avrebbe avuto mani libere: alla ricerca di un futuro politico a 58 anni, Enrico Rossi si traveste da socialista per fare la rivoluzione. Ma lui di socialista ha sempre avuto ben poco. Nato a Bientina, padre camionista, a 27 anni è già un comunistello provetto. Prova a fare il giornalista al Tirreno, ma preferisce la politica. Vicesindaco e poi sindaco di Pontedera dove si appassiona alla battaglia contro il trasferimento della Piaggio.

Nel 2000 è assessore regionale alla Sanità ma ancora deve spiegare come sotto il suo incarico la Asl 1 di Massa Carrara sia riuscita a fare un buco da 500 milioni di euro. Da governatore è stato indolore, nessuno se n’è accorto. Ora vuole stracciare la tessera del Pd ma il suo carisma è pari almeno al suo tono di voce.

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