Prelevate dalla polizia con un blitz mentre erano nella loro casa a Casalpalocco e rimpatriate in Kazakistan due giorni dopo. Ieri sono stati condannati tutti e sette gli imputati nel processo per l'espulsione di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako, Muktar Ablyazov, e della figlia Alua Ablyazova, che all'epoca dei fatti aveva soltanto sei anni. Alla donna, che in teoria doveva essere protetta dal diritto di asilo ma che invece fu rispedita nel maggio 2013 nel paese dove era perseguita, venne contestata l'accusa di avere un passaporto falso, ma la squadra mobile capitolina in realtà cercava il marito.
La sentenza del Tribunale di Perugia è arrivata dopo otto ore di camera di consiglio. I giudici hanno condannato a cinque anni di reclusione e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, con l'accusa di sequestro di persona commesso da pubblico ufficiale, Renato Cortese, l'ex capo della Squadra Mobile di Roma e attuale questore di Palermo, l'ex capo dell'ufficio immigrazione e ora al vertice della Polfer, Maurizio Improta e i due poliziotti della questura di San Vitale, Francesco Stampacchia e Luca Armeni. Identica l'accusa per gli altri agenti, Stefano Leoni, chiamato a scontare tre anni e sei mesi di reclusione mentre a Vincenzo Tramma ne sono stati dati quattri. Tutti sono stati ritenuti colpevoli anche di vari episodi di falso, alcuni confermati e alcuni caduti, insieme a Stefania Lavore, il giudice di pace che seguì il caso, per la quale è scattata la pena di 2 anni e 6 mesi.
Le condanne inflitte sono state superiori a quelle richieste dal pubblico ministero Massimo Casucci nella requisitoria del 23 settembre. L'espulsione della donna e della figlia (poi tornate in Italia nell'aprile 2014) fu singolare, perché avvenne con un jet partito da Ciampino e pagato dal Kazakistan. Il caso, esploso nel luglio 2013, portò alle dimissioni del capo di gabinetto del ministero dell'Interno Giuseppe Procaccini. Non passò invece la mozione di sfiducia per l'allora capo del Viminale Angelino Alfano. «Ogni singolo capo di imputazione contestato a Cortese non sussiste, ha sempre onorato il servizio - aveva spiegato nell'arringa difensiva l'avvocato Franco Coppi -. Per Renato Cortese che Shalabayeva rimanesse in Italia, fosse trattenuta o espulsa, erano questioni assolutamente irrilevanti. Il suo interesse era un altro, quello di catturare una persona che oggi da tutti viene indicato come un martire ma che, in quel momento, venne segnalato da tutti come un pericoloso delinquente, una persona che ha rapporti con terroristi, se non terrorista lui stesso, accusato di avere commesso reati patrimoniali di rilevante entità». «Cortese è l'uomo che ha catturato Giovanni Brusca, Pietro Aglieri, Salvatore Grigoli, Bernardo Provenzano - aveva ricordato l'altro difensore, l'avvocato Ester Molinaro - le condotte e i fatti che gli vengono contestate non configurano reato e comunque non li ha commessi».
Il legale di Improta, Ali Abukar Hayo, promette battaglia. «Leggeremo le motivazioni e faremo appello come è giusto che sia - ha sottolineato -. Qui si parla di un reato di sequestro di persona. Il problema per noi è il fondamento del fatto stesso. Noi riteniamo di aver dimostrato che non sussistono elementi del fatto così come ha ritenuto invece il Tribunale».
Alma Shalabayeva, che ieri non era presente in aula, si e' detta «molto colpita dalla correttezza e indipendenza dei giudici».
«Il suo commento - riferiscono i suoi legali, Alessio e Astolfo Di Amato - è stato nel mio paese non sarebbe andata così. Quello che colpisce è che nessuno dei condannati aveva un interesse personale, quindi hanno obbedito a degli ordini e chi ha dato quegli ordini l'ha fatta franca».
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