La fuga dei milionari da Londra: "Arriva la patrimoniale laburista"

Starmer ha annunciato una finanziaria "dolorosa". I timori dei grandi capitali: quest'anno 9.500 ricchi britannici lasceranno il Paese

La fuga dei milionari da Londra: "Arriva la patrimoniale laburista"
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«Il Regno Unito potrebbe perdere 9500 milionari quest'anno, quattro volte più di Russia, Brasile e Sudafrica messi insieme e più di ogni altro Paese, Cina esclusa». Lo rivela Henley & Partners, società con sede a Londra che supporta il ricollocamento dei super-ricchi e ha sfoderato i dati al britannico The Times, precisando che 4200 milionari hanno già lasciato il Paese nei primi cinque mesi dell'anno. Il mantra pre e post elettorale sbandierato dal neo primo ministro Starmer è crescita economica, perseguita attraverso un'oculata gestione delle finanze pubbliche. Dolorosa, come definita da Starmer, sarà la finanziaria di fine ottobre, che dovrà recuperare le risorse per colmare un buco nel bilancio statale di poco più di 20 miliardi di sterline, secondo stime governative rigettate dai conservatori. Si prospettano nuove tasse, che stanno mettendo in fuga i milionari.

Uno degli interventi già annunciati è l'abolizione del non-domiciled regime: istituito nel 1799 per finanziare le spese delle guerre napoleoniche alle porte, è un retaggio imperiale che consente a chi ne ha i requisiti di schermare i redditi prodotti all'estero dalle tasse inglesi, con il solo obbligo di versare un'una tantum in funzione degli anni vissuti nel Paese. È stato al centro della recente campagna politica per le elezioni parlamentari di inizio luglio: la stessa moglie dell'ex primo ministro Sunak, Akshata Murty, figlia del fondatore del gigante tech Infosys, ne beneficia ponendo al riparo del fisco inglese milioni di sterline annui di dividendi dell'azienda del padre. I favorevoli al non-dom regime sostengono che una sua cancellazione porterebbe a una fuoriuscita dal Paese di migliaia di super ricchi, con conseguente impoverimento dell'economia. In realtà, spulciando i dati del fisco inglese si nota come il ricorso a questo regime fiscale si sia costantemente attenuato negli ultimi anni, passando da quasi 140mila beneficiari nel 2008 a circa 75mila dello scorso anno. Una riduzione continua, accentuatasi dopo il referendum sulla Brexit, che indica una costante disaffezione delle elite economiche mondiali verso il Regno Unito. Una tendenza cominciata molto prima dell'insediamento del nuovo governo laburista e che attraversa tutti i 14 anni di esecutivi conservatori durante i quali la pressione fiscale è salita ai massimi dal dopoguerra.

Un intervento fiscale che potrebbe invece accelerare la fuga dei super ricchi dal Regno Unito è la possibile introduzione da parte del Labour di una nuova tassazione per i manager nel private equity, che oggi ricevono la maggior parte della remunerazione sotto forma di plusvalenze finanziare, tassate al 28%, e che il nuovo governo vorrebbe equiparare a redditi da lavoro e tassarli fino al 45%. Un'iniziativa che, se confermata, potrebbe indurre molti manager a ricollocarsi verso destinazioni europee fiscalmente più amichevoli: Spagna, Portogallo, Svizzera e Italia, con Milano fra le mete preferite. Il Financial Times ha recentemente elogiato il capoluogo lombardo ponendolo tra le mete favorite di chi lascia Londra: prossima apertura di club privati ad accogliere i transfughi d'oltre Manica, effervescente vita culturale, ottime scuole internazionali, agevoli collegamenti col resto del continente, favorevole regime fiscale italiano (100mila euro di tasse annue per 15 anni per tutti i redditi esteri).

Gli interventi fiscali laburisti rischiano di accentuare un annoso problema del Regno: molti di coloro che lasciano il Paese sono imprenditori che portano con sé non solo soldi e indotto ma idee e futura crescita, come evidenziato dallo studio di Henley & Partners, che ha registrato ad agosto un +69% nelle richieste di trasloco dei milionari rispetto al 2023.

Lontani da Londra e dall'Europa, destinazione Usa e Asia: un trend cominciato con il boom tecnologico a inizi del 2000, che rischia di aggravare il principale problema inglese (e non solo): una produttività cresciuta pochissimo negli ultimi 20 anni, senza il cui aumento la crescita economica rimane un miraggio.

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