Il nuovo corso post-Quirinale prende forma in quel di Bruxelles. Dove Draghi si limita a restare solo poche ore, il tempo necessario a partecipare al Consiglio europeo straordinario sull'Ucraina. Rinuncia, invece, al vertice Ue-Unione Africana, chiedendo a Macron la cortesia di leggere il suo intervento durante la tavola rotonda prevista per il pomeriggio. Un'assenza inattesa, decisa ieri mattina dopo che la maggioranza ha ballato in Parlamento fino alle 4.30 di mattina. Perché alla Camera il governo è andato sotto ben quattro volte sul Milleproroghe durante le votazioni delle commissioni congiunte Affari costituzionali e Bilancio. Con tanto di rissa sfiorata in piena notte tra il leghista Iezzi e il dem Pagano, non propriamente in sintonia su alcuni emendamenti. È servito l'intervento del ministro D'Incà per evitare che la situazione degenerasse. Un episodio, certo, ma che racconta il clima che si respira in un Parlamento sempre più sfilacciato e lontano dal governo. È in questo quadro che Draghi decide di rientrare al più presto a Roma. E mette nero su bianco quello che è un netto cambio di approccio rispetto al passato. La conferma che il voto sul Quirinale ha segnato un vero e proprio spartiacque. Il premier, infatti, non è più disponibile ad alcun tipo di mediazione. Certamente, non lascerà che i partiti lo consumino in Parlamento, rimettendo mano ad intese già siglate in Consiglio dei ministri. L'ex numero uno della Bce, però, non vuole limitarsi a mandare un segnale di fumo. E sceglie di chiarire quanto più apertamente possibile la sua posizione. Così, appena atterrato a Roma, si presenta al Quirinale per un faccia a faccia con Mattarella. Draghi mette al corrente il capo dello Stato dei suoi molti dubbi sulla tenuta della maggioranza. «Se i partiti non sono in grado di garantire i loro voti in Parlamento - è il senso del ragionamento del premier - è evidente che non si va avanti». Considerazioni che l'ex Bce ha intenzione di fare direttamente con i capidelegazione di maggioranza, una modalità d'azione che Mattarella condivide in pieno. La riunione si tiene alle 18.30 a Palazzo Chigi. Ci sono Giorgetti (Lega), Gelmini (Forza Italia), Patuanelli (M5s), Orlando (Pd), Speranza (Leu) e Bonetti (Iv). E tutti assistono allo sfogo di un Draghi mai così tranchant. «Se è cambiato qualcosa basta dirlo. Se questo governo non va più bene ai partiti e al Parlamento, allora- è il senso esplicito delle parole del premier - trovatevene un altro». Un altolà netto, deciso. Perché se Draghi evoca esplicitamente la fine del suo governo è chiaro che il passo successivo sono la crisi e le elezioni anticipate. D'altra parte, l'ex Bce non nasconde la sua irritazione. Se in Cdm si decide una cosa e poi il Parlamento è incontrollabile e rimette tutto in discussione solo perché i partiti devono mettere qualche bandierina (vedi riforma fiscale e questione catasto), allora «trovatevi un altro governo». Draghi, insomma, non è disponibile a «scaldare la sedia». Anzi, è deciso a drammatizzare il messaggio. Che, non a caso, manda ai partiti proprio nel giorno in cui l'Europa si confronta a Bruxelles sui venti di guerra tra Mosca e Kiev. Il senso è chiaro: c'è la crisi in Ucraina e il rischio di un ulteriore aumento del costo dell'energia, se in questo contesto i partiti non sono in grado di dar seguito ai loro impegni si accomodino e aprano la crisi.
Un ragionamento che non fa una piega. Ma che, fanno notare sia Gelmini che Giorgetti, andrebbe «condiviso» anche con i leader dei partiti. Perché, non è un mistero, i capidelegazione non sempre rappresentano la linea del partito di appartenenza.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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