Non possiamo sapere con certezza come ci giudicheranno i posteri, ma qualche dubbio si è in grado di nutrirlo. Potrebbero, ad esempio, considerarci soltanto degli imitatori, perché una delle forze portanti del nostro secolo, e soprattutto nel declinare di questo secolo, è l'atteggiamento scimmiottesco adottato dagli umani.
In pratica, non si fa che scimmiottare. Il presidente americano, con certi gesti ieratici, tenta di ricordare Lincoln, e con certi sorrisi cerca di imitare Roosevelt. Capi d'industria e politici di ogni nazione si atteggiano ora a granduchi ora a modelli cinematografici di buona presa popolare. La stessa moda del «revival», del recupero, di ogni riflusso immotivato o meno, non fa che riproporre moduli antichi. Nel caos del nostro presente tentiamo di imitare chi fu, e magari fu creativo e felice, senza però rispettarne l'ordine che lo incorniciava, un ordine morale assai più che legiferato. Sappiamo di non poter frenare la cosiddetta marcia del progresso, con tutti i suoi traumi inevitabili, ma vorremmo lo stile, la grazia, la scioltezza motoria e mentale di contesse proustiane, di ambasciatori viennesi, di diplomatici inglesi. Con l'unico risultato di non adeguarci al presente, di non inventare modelli tipici per la nostra vita e per la decifrazione di questa vita.
Scimmiottando, non s'impara. Si nega. Si declina la responsabilità. Ci si traveste e si mente. Si perde autonomia di giudizio. Ed infatti troppi reggitori dei governi e troppi responsabili delle opinioni pubbliche ci appaiono come imbarazzate marionette, alle prese con problemi che li frastornano, e che quindi si abbattono su di noi con effetti disastrosi e creando ulteriori confusioni comportamentistiche. C'è chi scimmiotta persino nei meandri più tetri e insanguinati del vivere: l'assassino che si crede rivoluzionario, il profeta che si crede incarnazione di qualche Iddio, il colonnello africano che impera e uccide e si ritiene personaggio da romanzo. Ma se misuriamo i modelli a cui costoro si ispirano, risulta evidente il mendacio. Pancho Villa ha avuto più storia e figura, che non Fidel Castro. Stalin usò maniere impietose ma minori bugie dei suoi successori, che sembrano infinitamente più vecchi di lui. Giscard d'Estaing oscilla tra un De Gaulle in borghese e Gerard Philippe che recita la parte del Cid. Pietosamente stendiamo un velo su certi nostri compatrioti, incravattati o scamiciati che siano, e così incerti anche nella scelta dei prototipi storici a cui aggrapparsi. Non intendiamo lodare i tempi andati. Dopotutto sono imperdonabili: ci hanno prodotti. Intendiamo però ristabilire un distacco tra un Bogart vero e un tizio con la faccia da Bogart.
Non si tratta solamente di un film in circolazione, si tratta di un'abitudine ormai incarnata in troppi personaggi che ingombrano il palcoscenico dei nostri anni. Su questo palcoscenico gente «con la faccia da Bogart» circola godendo di eccessiva libertà, vien presa sul serio, mentre è del tutto falsa, studiata, roba da calco e da grande magazzino. Abbiamo i politici (ma anche i pittori, gli artisti, gli scrittori) fabbricati in serie, secondo determinate taglie pronte all'uso. Si tratta di personaggi calati in una parte sempre prevedibile e un po' sordida, non si tratta più di persone. Ecco: mancano le persone. A furia di scimmiottare eroi o antieroi di ieri, ci sono rimasti gli abiti, le piume, il gesticolare adattato alla televisione anziché ai cortigiani, ma questo guscio è vuoto all'interno, è un rinsecchito involucro che può passare da un individuo ad un altro, può essere ereditato con il ruolo. Perché scimmiottare significa anche modellarsi e vendere la propria anima. Basta la faccia, una faccia da Bogart. Mentre il vero Bogart molto ci mise e molto studiò per diventare se stesso. Riflettendo bene, quella che era la sua legittima e rispettabile faccia, può agevolmente tradursi in un insulto, oggi come oggi. Dire di qualcuno, dopo la morte di Bogart, che ha «una faccia da Bogart» e quindi non è se stesso ma un fantoccio ricostruito, non dovrebbe indurre a sporgere querela?
Non vogliamo vivere da leoni, ma tantomeno da scimmiotti. Ed invece il grande, torvo, continuo spettacolo della vita pubblica non ci offre che queste imitazioni, in latta e in gesso, in cartapesta e in compensato, di gente che invece fu d'acciaio, di marmo, anche se crudelmente, anche se spaventosamente. I nostri scimmiotti dondolano di ramo in ramo senza un'idea che non sia di riporto. Vengono tutti dominati da due scienze: quella economica, definita «grigia» e con montagne di errori alle spalle, e quella sociologica, detta anche una «non scienza», che li imbottisce di linguaggi babelici e di formule sclerotiche. Non c'è più l'operaio che la pensi davvero da operaio, a modo suo contribuendo alla conoscenza collettiva, ed è rarissimo il romanziere disposto ancora a far romanzo, cioè testimonianza di vita, di ogni vita. La gran confusione delle scimmiottature impone che tutti facciano la parte di tutti gli altri. Da un lato si è solo specialisti, prigionieri entro le nicchie di un sapere particolare e sordo alle sollecitazioni esterne. Dall'altro lato siamo tutti ristretti entro blue-jeans mentali, e creiamo un'universale gazzarra di messaggi polivalenti, di disponibilità frenetiche.
Quando ottantamila giovani gremiscono uno stadio per un concerto, dichiarano che lo fanno perché si sentono soli e isolati. In ottantamila.
Non è un'ennesima scimmiottatura, un'ennesima formula, un'ennesima falsa ricetta? Continuiamo così, senza indagare sugli scopi. Ci punge un timore. Quando le scimmie sono tante e si copiano l'un l'altra, non si sa chi può venirgli incontro. Speriamo sia Tarzan, e non Stalin.9 luglio 1980
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