A quietare le ansie del Nazareno, che con l'esplosione del caso Mps ha iniziato a temere la partita di Siena, ci ha pensato ieri pomeriggio la Lega. Con un comunicato ufficiale, i dirigenti toscani smentiscono le voci che circolavano sempre più insistenti da un paio di giorni, e che avevano alimentato un certo panico nel Partito Democratico: «Nessun cambio di candidato, riponiamo la massima fiducia in Tommaso Marrocchesi Marzi e siamo convinti che sarà eletto».
La conclusione che ne traggono nel centrosinistra è unanime, e viene così sintetizzata da un parlamentare che conosce bene il territorio: «A questo punto, se la Lega non cambia cavallo, Enrico Letta vince per abbandono di campo da parte degli avversari». Già, perché l'ipotesi che si era affacciata, gelando gli entusiasmi dem ancor più della tempesta (prevista) su Mps, era che la Lega, per provare a vincere la battaglia e ad assestare un duro colpo all'avversario, facesse scendere in pista, al posto del poco conosciuto imprenditore vinicolo chiantigiano scelto da Picchi come candidato, il sindaco di Siena Luigi De Mossi, eletto nel 2018 con la vittoria inaspettata del centrodestra. Un candidato forte e ancora molto popolare sul territorio, e un osso durissimo per il segretario del Pd Letta, che non solo è considerato un romano a tutti gli effetti e un parigino d'adozione, ma che ha anche il peccato originale (nella disfida dei campanili di Toscana) di essere di origini pisane.
Ma a quanto pare, notano in casa Pd, «la Lega ha scelto di perdere a Siena», e Letta potrebbe avere una vittoria di default già in tasca. Tanto più in assenza di un avversario capace di intercettare il forte malessere dei senesi contro il Pd e il suo antico rapporto incestuoso con il Monte dei Paschi: «Su 100mila elettori, voteranno se va bene in 50mila. Al Pd basta portare alle urne una buona fetta dei suoi, e con appena 25mila voti si aggiudica il seggio», calcola un esperto di conti elettorali dem.
Il Nazareno ha molto drammatizzato lo scontro di Siena, dove il segretario ha messo in palio il proprio destino con una frase che non sempre porta fortuna: «Se non vinco lascio tutto». Un modo, anche, per poter rivendicare come grande vittoria un esito (quasi) scontato. E il Pd sta drammatizzando ora lo scontro con il governo sul caso Mps, gridando (insieme a Lega, Fdi, M5s eccetera) il suo «no allo spezzatino», ossia alla vendita a Unicredit dei pochi rami ancora sani della disastrata banca senese. L'aspetto curioso della faccenda è che questo stesso piano, oltre ad essere l'unica strada percorribile per evitare il crack finale come ricorda l'unico esponente politico che ha il coraggio di prendere una posizione realistica, ossia il sottosegretario Benedetto Della Vedova («Meglio vendere che bruciare risorse pubbliche all'infinito»), è anche noto da molto tempo.
Già, perché a fine 2020 erano circolate autorevoli indiscrezioni sugli sforzi del Tesoro (allora guidato dal dem Roberto Gualtieri), avallati dal premier Conte, per liberarsi di Mps cedendola almeno in parte a Unicredit già nel 2021.
Contestare oggi una scelta già nota, e che porta anche il marchio del suo ex ministro e ora candidato a Roma rischia dunque di creare non pochi imbarazzi al Pd, che contava sul fatto che il bubbone Montepaschi esplodesse in autunno, dopo le suppletive di Siena. E non all'inizio della campagna elettorale.
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