È andata nel pallone la geopolitica europea quando pochi giorni fa i giornali locali in Crimea hanno rivelato che nella penisola contesa da Ucraina e Russia partirà in estate un campionato approvato dalla Uefa, organo di controllo sovrano del calcio europeo. Manca ancora l'approvazione finale, ma la notizia è arrivata sia da funzionari della federazione locale sia da quelli dell'Unione europea delle federazioni calcistiche, che hanno parlato di «annuncio prematuro ma corretto».
L'idea di un campionato a otto squadre in Crimea può sembrare in sé innocente, se non si inserisse nella più profonda crisi geopolitica degli ultimi decenni in Europa, in un conflitto armato nei territori dell'Est dell'Ucraina tra esercito di Kiev e milizie filo-russe, costato a Mosca mesi di sanzioni economiche e l'isolamento internazionale (la Russia rischia anche il suo ruolo di ospite della Coppa del Mondo del 2018). Il campionato della Crimea non sarà etichettato né sotto Russia né sotto Ucraina. La Uefa spera così di togliersi dall'imbarazzo del grattacapo internazionale, ma in realtà le nuove partite sono destinate ad aprire rivendicazioni altrove.
Benché Sepp Blatter, presidente della Fifa - la federazione internazionale che governa il mondo del football -, ripeta ciclicamente che il calcio è sport e niente ha a che fare con la politica, non è la prima volta che crisi e conflitti internazionali pesano sul pallone. Domani a Zurigo si apre il 65º Congresso della Fifa, e la Federazione affronterà i recenti arresti di giornalisti della Bbc in Qatar, in seguito a inchieste sullo sfruttamento dei lavoratori stranieri - nepalesi - nei cantieri per gli stadi della Coppa del Mondo del 2022. All'ordine del giorno c'è anche la richiesta della Palestina di sospendere la squadra nazionale israeliana per «ostruzionismo» dello sviluppo del calcio palestinese e «restrizione» dei movimenti dei suoi atleti.
La questione della Crimea nella Uefa è destinata ad aprire il dibattito su tutte quelle regioni con aspirazioni indipendentiste che chiedono da tempo di entrare nei circoli alti del pallone. Numeri alla mano, al tavolo della Fifa siedono più squadre nazionali che a Palazzo di Vetro. Gli Stati membri delle Nazioni Unite sono infatti 193, 209 le associazioni nazionali della Federazione. Il trucco c'è: fanno parte del conto territori «dipendenti». La regola vuole che siano nel gruppo soltanto nazioni indipendenti internazionalmente riconosciute, anche se per esempio il Regno Unito non ha una squadra di calcio, ma sono Scozia, Galles e Inghilterra a scendere in campo ai grandi appuntamenti. La Palestina, grazie alle pressioni dei Paesi arabi, è entrata nella Fifa nel 1998, molto prima d'essere riconosciuta «Stato osservatore non membro» alle Nazioni Unite (2012), e prima di avere sul terreno uno Stato vero e proprio. Un'altra associazione nazionale della Federazione il cui riconoscimento internazionale è problematico è Cina Taipei (Taiwan). Gibilterra, geograficamente in Spagna ma controllata dalla Gran Bretagna, dopo un passaggio al tribunale arbitrale dello sport di Losanna è entrata nella Uefa nel 2013. Sta ora tentando la via della Fifa. Il Kosovo, riconosciuto da 110 governi del mondo, da 23 dei 28 membri dell'Unione europea, può giocare soltanto amichevoli non competitive con il beneplacito della Fifa, ma senza esporre bandiere o suonare inni nazionali. Catalogna e Paesi Baschi, il Kurdistan e altre regioni che cercano o maggiori autonomie o indipendenza rivendicano da tempo la loro identità calcistica.
Alcune squadre si sono scontrate per la prima volta a giugno 2014 nel primo torneo dei «non riconosciuti», raggruppati nella Conifa, Confederation of Independent Football Association : con Abkhazia, Darfur, Ossezia del Sud, Nagorno-Karabakh, Quebec e Kurdistan è scesa in campo anche la Padania.
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