Essere fuori dalle righe è da sempre il suo marchio di fabbrica. Vietato passare inosservati. Tanto che nemmeno la pandemia da Coronavirus è riuscita a oscurare la notizia della cacciata del senatore Mario Michele Giarrusso dal M5s. Per non parlare dell'altro espulso grillino di giornata, il deputato Nicola Acunzo, passato in cavalleria. E c'è da dire che Acunzo era anche un attore abbastanza famoso.
Ma è solo un carneade in confronto a Giarrusso. Un avvocato catanese di 55 anni che sembra investito della missione di fare notizia. Con le parole, certo. E anche con le immagini e la stazza pantagruelica di un corpo gettato nel campo di battaglia della politica. Una delle ultime istantanee della giarrusseide risale al 19 febbraio dell'anno scorso, era gialloverde, quando la Giunta delle Immunità del Senato non concede l'autorizzazione a procedere nei confronti dell'allora ministro dell'Interno Matteo Salvini per il caso Diciotti. Sembra uno smacco per un politico autodefinitosi «manettaro». Ed ecco il colpo di teatro. All'uscita dell'Aula a Sant'Ivo alla Sapienza, il nostro affronta i senatori del Pd che lo contestano e mima il gesto delle manette. Cameraman e fotografi vanno in visibilio, consegnando alla cronaca di quei giorni un'altra immagine della piccola storia buffa del grillismo. «Io non ho i miei genitori agli arresti domiciliari» dice Giarrusso rispondendo agli insulti dei dem, riferito all'allora senatore del Pd Matteo Renzi. Esattamente un anno dopo, sul caso Gregoretti, Salvini va a processo e il senatore commenta: «I casi sono tutti diversi». Nella hit parade delle sparate del più manettaro tra i manettari c'è questa su Renzi, pronunciata alla Zanzara nel 2015: «Sarebbe da impiccare». L'uscita è fuori dalle righe, il titolo assicurato.
Il giustizialismo è il tratto distintivo della biografia politica di Giarrusso. Sin dal 1992, anno di Mani Pulite, quando si candida alla Camera con La Rete di Leoluca Orlando, finito in fondo alla lista dei consensi con poco meno di 700 preferenze. Missione fallita alle Regionali del 2008 con gli Amici di Beppe Grillo, poco più di 300 voti personali. In mezzo la militanza antimafia nella Fondazione Caponnetto e proteste ambientaliste. L'uscita dall'anonimato arriva nel 2013 quando entra a Palazzo Madama. Bissa la candidatura nel 2018, nonostante il continuo oscillare tra la fronda e l'ortodossia. Due anni fa risponde così su Facebook a chi gli chiede se facesse ancora parte del M5s: «Sono capolista del M5s nel collegio plurinominale Sicilia 2. Praticamente già eletto». Al solito l'eloquio è senza fronzoli, per usare un eufemismo. Come quando insulta sui social, pur senza citarla con nome e cognome, la giornalista Debora Borgese che lo denuncia per diffamazione.
Gli ultimi mesi sono stati vissuti sul filo del rasoio. Tra inviti a Di Maio a fare un passo indietro (poi arrivato) e provocazioni nei confronti dei vertici, ad esempio la firma, in seguito ritirata, per il referendum sul taglio dei parlamentari.
Infine la sottoscrizione dell'appello di Di Battista sulle nomine. Quindi l'espulsione arrivata per le mancate rendicontazioni dei tagli allo stipendio. Lui commenta: «Sto valutando se fare ricorso». Sopra le righe, ma fuori dal M5s.
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