"In gioco la verità della Storia. Da Mosca genocidio culturale"

Il giornalista pluripremiato Yaroslav Trofimov: "Battaglia di narrazioni. Gli ucraini conoscono cosa significa il controllo russo"

"In gioco la verità della Storia. Da Mosca genocidio culturale"

Yaroslav Trofimov è nato a Kiev nel 1969, è corrispondente estero del Wall Street Journal e, per i suoi reportage dall'Afghanistan e dall'Ucraina, è stato finalista al Premio Pulitzer nel 2022 e nel 2023. A tre anni dall'invasione russa del suo Paese esce Non c'è posto per l'amore, qui (La nave di Teseo, pagg. 448, euro 22), un romanzo ambientato in Ucraina fra il 1930 e il 1953: la protagonista Debora scopre sulla sua pelle a che cosa corrisponda, nella realtà, il grande futuro di progresso e libertà propagandato dall'Unione Sovietica. Fra ingiustizie, arresti, ricatti, minacce, disillusioni, violenze e un'eterna menzogna in cui lei, e tutti, sono costretti a vivere.

Yaroslav Trofimov, come è nata l'idea del romanzo?

«Ero a Kabul, nel 2014, quando la guerra è veramente cominciata, con la prima invasione russa dell'Ucraina. Ma il mondo era preoccupato per le sorti della democrazia afghana... Ero molto seccato dal fatto che la narrazione russa sul conflitto fosse largamente accettata».

Perché accadeva?

«La storia complessa e movimentata dell'Ucraina era sconosciuta ai più e il nazionalismo era visto negativamente, perché tutto ciò che si sapeva era visto attraverso gli occhi dei russi. Perciò ho deciso di raccontare la storia dell'Ucraina, così come l'ho conosciuta io, attraverso quella della mia famiglia e, in particolare, di mia nonna».

Com'è questa storia?

«Molto complessa. La realtà dell'Ucraina è complicata, nasce dall'incontro fra etnie, lingue e religioni diverse, come si vede anche oggi: Zelensky è ebreo, il ministro della Difesa è musulmano, il comandante in capo dell'esercito è di origine russa. Ma l'Ucraina è molto di più di queste cose, e mia nonna, finché era viva, mi ha raccontato molto».

Quando è morta?

«Nel 2008. Negli ultimi anni della sua vita ha iniziato a raccontarmi quelle storie che aveva sempre tenuto nascoste, come chiunque nel Paese e in Unione Sovietica: tutti avevano paura o vergogna a parlare perché, per sopravvivere, avevano dovuto fare delle cose non belle. Allora sono andato in Ucraina e in Russia, finché ho potuto, per vedere i posti di cui scrivo e frugare negli archivi».

Quanto è fiction?

«È un romanzo, ma le descrizioni dei luoghi, della gente e dell'epoca sono il più possibile fedeli alla storia. L'ho finito nel 2021, appena prima della grande guerra: nel gennaio del 2022 ero a Kiev, quando c'è stata l'invasione russa. E la descrizione dei bombardamenti di Kiev durante la Seconda guerra mondiale, che ho immaginato nel libro, l'ho vista veramente, con i miei occhi».

Lei è un reporter di guerra, ma com'è raccontare la guerra nel proprio Paese?

«Sicuramente diverso. Questa ingiustizia è stata per me un'offesa personale, un insulto: come osi venire a distruggere il mio Paese per negare il suo diritto all'identità, il diritto degli ucraini a essere ucraini?».

Di ingiustizie, anche il suo libro, ne racconta tante.

«Fra gli anni '30 e '50, l'Ucraina era un luogo molto pericoloso: cinque milioni di persone sono morte per la carestia e le purghe, e altri dieci milioni durante la Seconda guerra mondiale fra soldati, ebrei e contadini. Kiev aveva perso metà della sua popolazione sotto l'occupazione tedesca. Sopravvivere era molto difficile. E tutti gli ucraini che esistono sono i discendenti di chi è sopravvissuto a questo tritacarne della Storia».

Un tritacarne come quello di oggi?

«Gli ucraini sanno che cosa succede quando la Russia controlla l'Ucraina. Perciò la battaglia per la Storia è la più importante, più di quella per il territorio».

Che cosa significa?

«Che parliamo di identità: questa è una guerra per la Storia e per la verità storica. Infatti è cominciata con quell'articolo in cui Putin diceva che l'Ucraina non esiste e che gli ucraini non hanno diritto a vivere separatamente dalla Russia. Appena hanno invaso il Paese hanno distrutto i monumenti che ricordano la carestia. È una battaglia di narrazioni: per l'Ucraina, la carestia non deve più avvenire; per la Russia non è mai avvenuta o, in alternativa, potrebbe anche ripetersi».

Vediamo questa narrazione in azione anche oggi?

«Tutti i giorni. La narrazione dei russi è molto forte, perché mettono a tacere gli altri: negli anni Trenta, un'intera generazione di scrittori e intellettuali ucraini è stata cancellata e poi dimenticata. Bulgakov, Pasternak e Solgenitsin non sono stati dimenticati; io stesso ricordo che, quando avevo 15 anni, a Kiev circolava la letteratura russa proibita. Il genocidio culturale ucraino fu un successo dell'Urss e solo negli ultimi trent'anni abbiamo iniziato a conoscere e scoprire quegli scrittori».

Che cosa serve all'Ucraina per affermare la verità storica?

«Innanzitutto sopravvivere, come Stato e come popolo. E poi raccontare, per esempio attraverso i libri. Mai, fino a questi ultimi tre anni, il mondo si è occupato della sorte e della storia dell'Ucraina, perché si credeva alla bugia secondo cui gli ucraini fossero uguali ai russi».

Perché la narrazione russa ha tanta presa?

«Perché per i russi è una questione esistenziale. Il nome di Putin e di Zelensky viene da Volodymyr, principe di Kiev, che portò il cristianesimo.

La Rus di Kiev esisteva già quando Mosca era una palude: perciò Mosca si è appropriata di questo Stato; ma, se la tua storia affonda le radici in un territorio straniero, è un problema. Kiev è la madre di tutte le città russe: perciò la Russia vuole cancellare il diritto dell'Ucraina di esistere come Ucraina. E per questo gli ucraini non possono arrendersi».

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