Esattamente quattro anni dopo. Come se nulla fosse stato. Come se nulla di straordinario fosse accaduto quel 6 gennaio 2021 in cui Capitol Hill, sede del Parlamento degli Stati Uniti a Washington, fu presa d'assalto da una folla di esagitati sostenitori del presidente uscente Donald Trump. Quel Trump che le aveva tentate tutte per impedire la certificazione ufficiale della vittoria del suo avversario Joe Biden, giungendo a incoraggiare la rivolta contro le istituzioni.
Esattamente quattro anni dopo quei fatti drammatici (ci furono morti e feriti, oltre all'inaudito oltraggio inferto al cuore pulsante della democrazia americana, con bande di forsennati che cercavano il vice presidente Mike Pence minacciando di impiccarlo se avesse sottoscritto i risultati ufficiali delle presidenziali) tutto si capovolge.
È la seconda anche se a suo sfacciato dire sarebbe la terza vittoria di Trump a ricevere in Campidoglio la sua certificazione, e il sigillo dell'ufficialità le verrà apposto, come prescrive la legge, proprio da Kamala Harris. Che non è solo la vice presidente uscente, ma soprattutto la candidata democratica alla Casa Bianca che aveva messo in guardia gli elettori americani da Trump chiamandolo «fascista», «aspirante tiranno» e «minaccia per la nostra democrazia».
È già successo quattro volte nella storia degli Stati Uniti che un candidato sconfitto subisca l'umiliazione di dover proclamare il trionfo del suo avversario: il caso più famoso è quello di Richard Nixon, battuto da John Kennedy nel 1960, ma spicca anche quello di Al Gore, che nel 2000 concesse la sconfitta a George W. Bush solo dopo un intervento decisivo della Corte Suprema.
Il caso di oggi, però, ha una sua drammaticità tutta particolare. Certamente perché sconcerta e dovrebbe anche insegnare qualcosa la lampante differenza di stile tra un presidente uscente (il Trump del 6 gennaio 2021) che si rifiuta di accettare la sconfitta e una candidata alla Casa Bianca e vicepresidente (la Harris del 6 gennaio 2025) che invece quella sconfitta la accetta e svolge correttamente il suo ruolo costituzionale. Ma più ancora perché Kamala Harris aveva impostato la sua campagna elettorale sulla denuncia dell'inadeguatezza del suo avversario a tornare presidente degli Stati Uniti.
È il caso di ricordare che, dopo la sua sconfitta nel novembre 2020, Trump aveva tentato di falsificare il risultato elettorale dello Stato della Georgia, insistendo al telefono con un funzionario locale perché facesse «saltare fuori in qualche modo quei 13mila voti che mi servono», e di convincere Pence a non controfirmare l'atto ufficiale della vittoria di Joe Biden. Ma anche che la Harris, catapultata in un braccio di ferro dell'ultim'ora dopo l'imprevisto ritiro dalla corsa alla Casa Bianca di un Biden piegato dalla malattia, ne aveva dette sul conto del suo avversario davvero di tutti i colori: non ultimo che «mai avrebbe dovuto ricomparire accanto al simbolo presidenziale».
E invece, eccola
lì. Un ben singolare 6 gennaio a Washington, con le bandiere a mezz'asta per il lutto di stato per Jimmy Carter che fanno infuriare una volta di più un Donald Trump che ha un concetto tutto suo delle istituzioni americane.
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