Da Greco al procuratore Viola, toghe in guerra con la politica. E adesso nel mirino finisce Sala

I giudici milanesi puntano al settore delle costruzioni: così riscrivono il piano regolatore

Da Greco al procuratore Viola, toghe in guerra con la politica. E adesso nel mirino finisce Sala
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«Quando per la nostra Procura sento invocare l'arrivo di un «papa straniero», di un procuratore che venga da fuori Milano, la mia sensazione è che il vero obiettivo sia normalizzare questa Procura, neutralizzare la sua storia». Così Francesco Greco, capo della Procura milanese, al momento di andarsene in pensione - alla fine del 2021 - commentava con gli amici le manovre intorno alla sua successione. Per la prima volta da cinquant'anni, appariva concreta la possibilità che a andare a dirigere le inchieste nella «capitale morale» arrivasse un corpo estraneo, un magistrato cresciuto fuori dai riti di via Freguglia, dalle vacanze di casta a Courmayeur, e soprattutto dalla cultura da contropotere che - da Francesco Saverio Borrelli in poi - ha fatto della Procura milanese un soggetto politico a tutto tondo.

Beh, il papa straniero è arrivato. La normalizzazione no. Anzi.

Quando il Consiglio superiore della magistratura ha scelto Marcello Viola come nuovo procuratore lo ha fatto tanto per un curriculum eccellente quanto per la sua estraneità all'ambiente milanese, contando su una cesura netta con la stagione dei veleni che per anni - dalla scontro tra Edmondo Bruti Liberati e il suo vice Alfredo Robledo, a quello tra Greco e il pm Paolo Storari - ha impestato il clima al quarto piano del palazzo di giustizia. La cesura è arrivata. Sono spariti i «cerchi magici», i fascicoli assegnati ai pm «di fiducia». A non arrivare è stata invece la normalizzazione, quel rientro nei ranghi che Greco paventava e che invece il Csm probabilmente auspicava spedendo un moderato come Viola alla Procura di Milano.

Anzi: sotto la guida di Viola, la Procura ha riscoperto come non accadeva da dieci anni il gusto dell'affondo giudiziario contro la politica. Le inchieste a raffica sull'Urbanistica sono solo la parte più vistosa di una linea che appare perseguita con costanza, e che nella incarnazione più prossima del potere politico, ovvero la giunta di Milano, ha il suo bersaglio più frequente. Non c'è solo l'Urbanistica: per un incidente stradale su una pista ciclabile viene incriminato l'assessore al traffico; si entra col bisturi negli appalti delle Olimpiadi invernali del 2026. Ma è chiaro che la partita vera dello scontro si gioca lì, sull'Urbanistica, croce e delizia di chi deve mandare avanti Milano. È lì, nella cultura del mattone, che si riassume il «modello Milano» caro non solo al sindaco Beppe Sala ma a pezzi importanti e trasversali di città. Ed è lì che la Procura sceglie di giocare da attrice, da contropotere di fatto. Come se quel Dna si trasmettesse dai muri stessi del palazzo, da una generazione di magistrati all'altra, permeandoli a dispetto delle storie diverse da cui provengono.

La Milano che vive fuori dal tribunale ha tardato a capire quanto totale fosse lo scontro. Ma quando si è resa conto che in ballo non c'erano solo questa o quella pratica edilizia ma la sopravvivenza stessa del «modello Milano» ha reagito con veemenza. Quando Lucia De Cesaris, già vicesindaca di Giuliano Pisapia, ha accusato la Procura di «usare le inchieste come un manganello» e di «dare la caccia alle streghe», ha dato il polso di quanto drammatica fosse la situazione: negli uffici comunali, dove i burocrati terrorizzati dagli avvisi di garanzia si rifugiano nella paralisi, e sopra di loro, tra i poteri che disegnano la città. Ma ha anche segnato un punto di non ritorno nei rapporti con la Procura, e creato le basi per lo scontro frontale.

Perché, qualunque siano state le motivazioni tecniche e giuridiche che hanno spinto la Procura ad andare all'attacco su un terreno irto di norme come l'Urbanistica, una cosa è certa: nei pm c'è l'orgoglio di una missione quasi salvifica, di supplire al deficit della politica nel garantire trasparenza e legalità. E quanto più vengono accusati di tracimare dal loro ruolo, quanto più Beppe Sala imputa loro di «fare politica», tanto più i pm si inzuccano. A condurre le inchieste sull'Urbanistica sono magistrati diversi per esperienza, convinzioni, carattere.

Ma vedere messa in discussione la loro autorità onnicomprensiva fa scattare l'orgoglio borrelliano del «resistere», il senso di superiorità che è alla fine il vero movente. «Altro che leggi incomprensibili - diceva poco tempo fa uno di loro - le leggi sono chiarissime, basta rispettarle». E se non le rispetta il Comune le facciamo rispettare noi. Ovvio, no?

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