La miglior difesa è l'attacco, e la miglior memoria difensiva non può che concedersi una controffensiva. In quella depositata dal leader leghista Matteo Salvini a Catania, in vista dell'udienza di fronte al gup il 3 ottobre per il caso della nave Gregoretti, la controffensiva è al veleno, e il veleno è nella coda. Precisamente nelle ultime due delle 50 pagine di argomentazioni messe nero su bianco per smontare le accuse di sequestro di persona per la vicenda del «ritardato sbarco» dei 131 migranti a bordo della nave italiana. È lì che Salvini, concludendo la memoria dopo aver ricordato che c'era un pericolo per la sicurezza nazionale visto che a bordo c'erano scafisti, poi identificati, spiega di «confidare, senza timore, nel giudizio della magistratura», riportando però subito dopo la «celebre» intercettazione di Luca Palamara, che pur riconoscendo la legittimità dell'operato di Salvini sull'immigrazione, parlando con Paolo Auriemma concludeva: «Ma ora bisogna attaccarlo».
Finisce dunque sollevando dubbi sull'esistenza di «un'offensiva nei miei riguardi da parte di alcuni esponenti della magistratura» l'autodifesa di Salvini a meno di dieci giorni dal suo processo. Processo al quale non si sarebbe dovuti mai arrivare, spiega il documento, che ricostruisce la vicenda inquadrandola come un «normale» sbarco, gestito di concerto con gli altri dicasteri competenti e il capo dell'esecutivo, e soggetto ai tempi tecnici dovuti all'iter per la redistribuzione dei migranti tra i Paesi Ue, come peraltro accaduto per altri sbarchi, anche con il successivo governo del premier Conte.
Insomma, nessun ritardo nell'individuazione di un «pos«, un place of safety, e nessuna «illegittima privazione della libertà delle persone a bordo», dunque nessun sequestro di persona, insiste Salvini. Quella nave della Guardia Costiera era essa stessa il «pos», il luogo sicuro e al riparo dalle correnti, perché dalla sera del 28 luglio non più in mare ma ormeggiata al molo Nato del porto di Augusta, dove i migranti, nessuno dei quali in condizioni critiche di salute, potevano attendere senza pericolo, con disponibilità di cibo e di cure mediche, che venisse organizzato il loro trasporto verso la destinazione definitiva, una volta stabiliti i criteri di redistribuzione tra i Paesi dell'Ue che si erano detti disponibili all'accoglienza.
Una fase, questa della redistribuzione, che in quell'occasione come in altre precedenti e successive doveva necessariamente avvenire prima che i migranti sbarcassero dalla nave, come previsto dall'accordo di Malta che Salvini cita, ricordando appunto l'esistenza di un «sistema di ricollocazione a corsia prioritaria' sulla base di impegni pre-dichiarati prima dello sbarco». Quella nave, insomma, non era una prigione, anche perché, se pure fossero sbarcati prosegue la memoria i migranti non avrebbero avuto «piena libertà di locomozione e movimento sul territorio nazionale», a causa del loro status di irregolari.
L'ex ministro dell'Interno, poi, rivendica di non aver affatto voluto «mantenere i migranti in uno status di privazione della libertà personale», citando dispacci e testimonianze dalle quali emergerebbe «chiara la volontà di procedere quanto prima alle operazioni di sbarco, non appena conclusa la fase relativa all'accordo di redistribuzione in sede europea», ma l'autodifesa di Salvini prosegue ricordando anche che non era il Viminale ma il ministero dei Trasporti quello competente a individuare il place of safety e a gestire l'evento di soccorso. Infine, prima della frecciata alle toghe in salsa Palamara, Salvini rivendica anche la legittimità del suo operato.
Ricordando di aver tutelato con la sua politica sui migranti un «preminente interesse pubblico, rappresentato dalla salvaguardia dell'ordine e della sicurezza, che sarebbero messi a repentaglio da un incontrollato accesso di migranti nel territorio dello Stato», e sottolineando che, per esempio, tra i 131 migranti della Gregoretti vennero identificati due scafisti.
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