C'è una data di scadenza inquietante sulle confezioni dei nostri antibiotici: è il 2050. Da quel momento in poi non faranno più effetto contro le infezioni. I batteri saranno più intelligenti di loro, noi più resistenti. E l'Istituto superiore di sanità stima che i morti potrebbero essere 10 milioni all'anno in tutto il mondo. Scenari da catastrofisti? No. Per niente.
Già oggi l'Italia conta 11mila morti all'anno per antibiotico resistenza. E nel mondo i casi di infezioni sono saliti dai 685.400 nel 2010 agli 801.500 nel 2020. Senza mezzi termini, gli esperti parlano di una pandemia silente.
«L'8% dei pazienti ricoverati negli ospedali contrae un'infezione» rileva Pierangelo Clerici, presidente dell'associazione Microbiologi clinici italiani. E questo comporta non solo rischi per la vita ma anche costi enormi per la sanità: 2,7 milioni di ricoveri per un costo diretto di circa 2,4 miliardi di euro.
La ricerca di nuovi farmaci (circa 250 quelli in fase preclinica) va a rilento e non porterà risultati prima di dieci anni. Per tamponare l'emergenza si punta quindi, prima ancora che su antibiotici intelligenti, su una diagnostica più rapida e su un uso mirato degli antibiotici. A cominciare da quelli ospedalieri. Proprio per evitare che vengano prescritti in modo inappropriato, insegnando al fisico a maturare resistenza.
Risultati interessanti arrivano dal nuovo polo di ricerca di bioMérieux a Bagno di Ripoli (Firenze). Nella sede della multinazionale francese lavorano 310 persone, ci sono laboratori di ultima generazione, una camera semi anecoica (per i test di compatibilità elettromagnetica sugli strumenti): e si lavora ai prototipi dei macchinari da fornire agli ospedali. Serviranno a effettuare test sulle infezioni più gravi, da quelle respiratorie alla meningite. Basterà un'ora per individuare i batteri e l'antibiotico giusto da somministrare al paziente. L'obbiettivo è arrivare a ridurre i decessi del 30%. Cioè salvare 3.300 persone all'anno in Italia. E dare, innanzitutto, più vita agli antibiotici attuali.
In Italia non vengono effettuati pochi test: «Forse se ne fanno anche troppi - sostiene Clerici - ma, in circa un caso su due, in modo inappropriato, quando invece sarebbe necessaria una gestione dell'infezione più ragionata e tradizionale. Altra problematica da affrontare è la carenza di personale qualificato: nonostante le nuove tecnologie abbiano automatizzato le analisi sul campione biologico, servono competenze microbiologiche per interpretarle. L'accelerazione tecnologica è più rapida della formazione dei professionisti».
Oltre a una gestione più intelligente delle infezioni all'interno degli ospedali, è necessario cambiare le abitudini anche nei confronti delle infezioni comuni. A cominciare dai medici: ci sono ancora pediatri che prescrivono l'antibiotico ai bambini anche per un raffreddore, senza verificare se sia di origine batterica o meno. Molte persone, nonostante la pandemia, buttano giù antibiotici come caramella anche quando la malattia è virale. E poi, sostiene Clerici, le case italiane soffrono di una sindrome: quella dell'armadietto delle medicine. Da cui si pesca a caso, memori della bronchite dell'anno prima, o per finire la scatola iniziata.
Abitudini da correggere il prima possibile in nome di cure mirate e non casuali.Solo cambiando approccio potremo mantenere intatta l'efficacia degli antibiotici e scongiurare il rischio di trovarci, nel 2050, senza armi per difenderci dall'attacco dei nuovi batteri.
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