Haftar bombarda Tripoli: missili sul quartiere della nostra ambasciata

Due morti vicino alla rappresentanza italiana. Sotto attacco perché "pesiamo" sempre meno

Haftar bombarda Tripoli: missili sul quartiere della nostra ambasciata

Più che un'ambasciata quella di Tripoli è una fortezza Bastiani. Un avamposto dimenticato da un gverno e da un ministro degli Esteri attenti all'interesse nazionale solo quando le notizie li risvegliano dal letargo. Le notizie stavolta sono i missili Grad esplosi giovedì notte nei dintorni della nostra rappresentanza diplomatica uccidendo due civili libici.

Ma quei missili, lanciati dai droni messi a disposizione del generale Khalifa Haftar dagli Emirati Arabi Uniti, sarebbero un problema relativo se l'Italia continuasse a trasmettere ai nostri diplomatici le linee guida per un'azione politica precisa e coerente. Invece l'esperienza e le capacità di un ambasciatore come Giuseppe Buccino Grimaldi, veterano della complessa partita diplomatica sulla nostra «quarta sponda», appaiono al momento sprecate. E con esse anche i rischi fisici affrontati non solo da lui, ma da tutto il personale diplomatico, militare e d'intelligence presente su quel teatro. Il Deserto dei Tartari, in questo caso, non si stende davanti alla «fortezza Bastiani», ma alle sue spalle. Un Deserto dei Tartari sintetizzato in un'intervista a Repubblica dal vicepresidente libico Ahmed Maitig convinto che «l'Italia non sa cosa vuole dalla Libia».

Meglio però specificare. A non saperlo sono innanzitutto il premier Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Nonostante la Libia rappresenti uno scenario cruciale per i nostri interessi energetici, per il controllo dei flussi migratori e per gli assetti strategici nel Mediterraneo e nel Nord Africa, gli ultimi segni di attenzione concreta a quel quadrante risalgono allo scorso gennaio. In quel caso a risvegliare i due dall'oblio non furono i missili, ma il patto sui confini marittimi del Mediterraneo siglato a fine novembre dalla Turchia di Erdogan e dal governo di Fayez al Serraj. Un accordo devastante per l'Italia, capace non solo di compromettere le attività di ricerca dell'Eni nel Mediterraneo, ma anche di ridimensionare il nostro ruolo politico trasformandoci di fatto da potenza di riferimento a partner di second'ordine alle spalle della Turchia.

Ma più che un risveglio sembrò il rialzarsi di due pugili suonati. Convinti che l'azione politica si misurasse con le miglia aeree consumate i due prepararono la Conferenza di Berlino (altro simbolo del nostro declino) peregrinando ai quattro angoli di Africa, Medio Oriente ed Europa. Peccato che il nodo della conferenza fosse nelle mani di Vladimir Putin e di Recep Tayyp Erdogan. Con l'emergenza Covid premier e ministro sono tornati al consueto letargo.

Nel frattempo Mosca, interessata ad un'intesa con Ankara e ad un accordo complessivo su Siria e Libia, ha ridimensionato l'appoggio ad un Haftar ormai spinto alla guerra solo dagli Emirati Arabi.

Invece d'inserirsi in questa nuova fase l'Italia è rimasta a guardare mentre città costiere come Sabratha, strappate al generale in ritirata nei giorni di Pasqua, tornavano nelle mani dei trafficanti di uomini schierati con il governo di Serraj e dei turchi.

Resta da capire se personaggi come «Zio» Ahmed Dabbashi, il capobanda protagonista a suo tempo di un accordo con i nostri servizi segreti per il controllo dei migranti, e Abd al-Rahman al-Milad, l'ex capo della guardia costiera di Zawiya sotto sanzioni Onu, torneranno alle consuete attività o cercheranno di tornare a fruire delle sovvenzioni girategli dal nostro governo attraverso Tripoli.

Ma per capirlo ci vorrebbe un governo capace di comunicare e fornire la rotta alla nostra ambasciata. Anche, e soprattutto, quando l'emergenza non è soltanto quella dei missili.

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