Roma - Lo sguardo corrucciato di Tommaso Tittoni, il piglio impietrito di Ivanoe Bonomi. La storia racchiusa nel corridoio dei busti precipita poco più in là, nel gruppo di senatori che discetta delle scollature del ministro Boschi. L'immagine del Napolitano claudicante che si avvia all'uscita dell'Aula, temporeggiando fino a parlare con l'incanutito Casini, sembra il simbolo di un mondo che si ferma. Paolo Corsini, già docente di Storia moderna all'Università di Parma, «anima» critica e pensante del gruppo dei Trenta che si è opposto per mesi al ddl Boschi, vive in queste ore dentro di sé l'amarezza di qualcosa che va via per sempre. Non un «suicidio» vero e proprio, come per gli altri, ma solo per «questioni di età. Ciò che mi rincuora è che ho una casa e degli studi che mi aspettano. Questo non è più il mio tempo, non è la mia cultura politica».
Senatore, però poi alla fine anche lei ha votato a favore. Con quale sentimento? Amarezza, rassegnazione?
«Soprattutto amarezza, indubbiamente. Un gran magone, e nessun entusiasmo. Anche per la consapevolezza che si tratta di un testo molto sgrammaticato. Ho letto con piacere che anche un giurista come Onida ne abbia convenuto. Per non dire delle riserve critiche sul contenuto... È un voto che mi lascia deluso».
Ma allora ha votato per la cosiddetta «disciplina di partito»?
«Ritenevo e ritengo che in questo caso, si tratta di materie istituzionali, non si possa porre la questione. No, alla fine noi della minoranza ci siamo decisi a votare in virtù dei risultati acquisiti nella mediazione. Un successo».
La grancassa renziana dice ben altro.
«Guardi, la verità è che anche l'esito del voto finale ha dimostrato che non il soccorso dei verdiniani, bensì l'idea di arrivare a un compromesso con la minoranza interna, abbia compattato il Pd e sbloccato la situazione. La conseguenza sarà che Renzi dovrà acquietarsi e capire che gli conviene discutere con il suo partito».
Mi sembra un ottimista. Per risultati si riferisce alla questione dell'elezione dei senatori «in conformità»?
«Anche. Non sono un giurista, ma giuristi di peso ci hanno confermato che si tratta di un'allocuzione stringente di cui non si potrà non tener conto nella legge quadro bicamerale che dovrà stabilire i criteri delle leggi elettorali regionali».
Un po' pochino... Altri risultati?
«Il bilanciamento sull'elezione del presidente della Repubblica: nessun partito da solo sarà in grado di eleggersi un candidato. E i due giudici della Consulta...».
Certo che con il combinato disposto dell'Italicum non lascia ben sperare.
«Vero, l'interrogativo di fondo resta: adesso siamo tutti d'accordo per una democrazia decidente e governante, però rischiamo di diventare una democrazia esecutiva, nella quale il potere esecutivo sussume quello legislativo».
D'altronde l'iniziativa del governo in una materia del genere ha costituito un vero «strappo», addirittura il ddl è stato denominato «Boschi», un ministro.
«Uno strappo forte, palese fin dalla commissione, quando si è votato con il governo che poneva delle fiducie...».
Per finire con l'assenza di un dibattito in aula sulle questioni concrete.
«Già. È emersa in tutta la sua evidenza la gracilità della cultura istituzionale di questa legislatura. Se penso ai Padri costituenti... Qui siamo a livello di Wikipedia ».
Questione generazionale o mancanza di selezione della classe dirigente?
«La seconda: la crisi dei partiti ha portato a una regressione totale».
Tra i suoi colleghi molti hanno votato sotto la minaccia delle elezioni.
«Moltissimi, ma non nel nostro gruppo. Andare al voto con il Consultellum proprio non si poteva, Renzi non avrebbe mai preso la maggioranza».
Allora meglio conservarsi uno scranno per altri due anni... Ma che razza di Repubblica stiamo diventando?
«Questo non lo so.
Avverto solo una percezione di profonda nostalgia... Penso alla Costituzione del '48, a chi la scrisse, a noi che non siamo riusciti neppure a realizzarla mai compiutamente. E ora la cambiano così radicalmente... Che tristezza».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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