Cala il sipario sul caso Assange (stavolta davvero) e in troppi non hanno niente da mettersi, indecisi se liquidarlo come un semplice hacker (tutti i giornalisti un po' lo sono) o come un nuovo messia imputabile appunto del reato di giornalismo: certo è che lui ne esce da colpevole, perché ha scelto di patteggiare e si patteggia una pena, ma certo è, soprattutto, che Julian Assange non andrà in prigione perché in pratica c'è già stato. Sono le fotografie a raccontare la sua storia: il ragazzino belloccio che impietosamente, ora, ci restituisce il biancore giallognolo dei capelli che furono biondo nordico, le rughe scavate sotto luci artificiali, persino la pancetta da abbruttito davanti a un monitor. Non andrà in prigione perché la giustizia statunitense, quella della pena di morte, funziona: unico requisito perché giustizia sia. È vivo, ed è vivo il principio secondo il quale le conseguenze penali non sono graziabili a furor di popolo. Eccolo il patteggiamento: da una parte gli Stati Uniti che restano una democrazia di riferimento, dove la certezza della pena significa anzitutto che una pena c'è stata, e dall'altra parte Assange: libero, come noi, nella coscienza che il giornalismo ha ancora tanto da fare.
Nel 2006, poco più che trentenne, fondò Wikileaks forse con le migliori intenzioni. La sua organizzazione riceveva documenti segreti che poi caricava sul web: pubblicò mezzo milione di documenti soprattutto sulle attività statunitensi in Afghanistan, offrendo, secondo il New York Times, «un quadro incolore e cupo». Comincia, in un certo senso, il patteggiamento tra la democrazia e i suoi frutti controversi: Assange era colpevole di aver violato le leggi sulla sicurezza ma aveva messo in luce delle verità di cui i media si sarebbero nutriti per anni. Assange fece delle scelte e la sua Wikileaks additò soprattutto dei crimini della stessa civiltà che aveva partorito lui e i suoi aneliti di libertà.
Poi la vita è strana. Nel 2010 la procura svedese emise un mandato d'arresto per stupro contro Assange, e la morale fu che lui se la diede a gambe. Si rifugiò a Londra in attesa di estradizione. E mentre in Russia d'un tratto comparve una serie tv condotta proprio da Assange (aprile 2012) l'Alta Corte britannica concesse l'estradizione in Svezia e lui si rifugiò nell'ambasciata dell'Ecuador, chiedendo e ottenendo asilo. Se fosse uscito l'avrebbero arrestato. Gli anni passarono così: all'inizio del 2016 le Nazioni Unite dichiararono che la detenzione era illegale ma la Gran Bretagna definì «ridicola» la sentenza. Intanto, nel 2018, lui otteneva la cittadinanza ecuadoriana mentre si mormorava che gli Usa custodissero un processo penale sigillato. Sinché, nell'aprile 2019, il presidente dell'Ecuador ritirò lo status di rifugiato e Assange finì in manette per aver violato la libertà su cauzione sette anni prima: il nuovo trasloco fu nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh (Londra) con conseguente condanna a 50 settimane di carcere. In pratica Barack Obama aveva deciso di non incriminare Assange per proteggere il diritto alla libertà di espressione, ma un procedimento era stato poi aperto dall'amministrazione di Donald Trump con 18 capi d'accusa, secondo i quali aveva cospirato assieme all'analista Chelsea Manning per entrare in un computer del Pentagono. E qui forse, Assange, avrebbe potuto intravedere i futuri patteggiamenti col sistema che combatteva: Manning fu condannata a 35 anni nel 2013, ma prima di essere graziata da Obama e prima ancora di essere di nuovo arrestata per non aver testimoniato: oggi è libera.
Dopodiché tutti i passaggi successivi dell'affare (l'archiviazione per stupro, le nuove accuse, il timore di un giudice inglese che Assange si suicidasse, i tira e molla
dell'estradizione) possiamo anche saltarli: si arriva all'accordo, si torna in Australia, fine. Ieri notte Julian Assange si è dichiarato colpevole ed è tornato in libertà: cose che succedono solo nel suo, nel nostro Occidente.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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