«Siamo orgogliosi di lavorare qui. Ma abbiamo paura che i progressi fatti negli ultimi due anni vengano cancellati. Libertà di espressione e libertà di pagare per dire ciò che si vuole non sono la stessa cosa». Sono rispettose ma nette le parole scelte da alcune centinaia di dipendenti di Facebook nella lettera aperta indirizzata al loro capo, Mark Zuckerberg. La questione al centro di questa prima (seppur contenuta) rivolta interna è la stessa per cui il fondatore del gruppo è stato messo sotto torchio qualche giorno fa dalla deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez (con una performance diventata virale) e ancor prima dalla candidata dem alla presidenza Usa Elizabeth Warren: la possibilità, per i politici, di pubblicare sul social network annunci a pagamento dal contenuto palesemente falso.
Una pratica impossibile fino a un mese fa, ma diventata lecita con il cambio di regole annunciato a fine settembre. Oggi, dunque, i post e le inserzioni di personaggi politici non sono più soggetti al fact-checking, cioè non hanno più bisogno del via libera fornito dalla rete di organizzazioni certificate e indipendenti a cui Facebook si appoggia per individuare, ed eliminare, le notizie false. In altre parole, politici di qualunque livello possono pagare per far circolare su Facebook informazioni non vere. E se Zuckerberg ha difeso la scelta motivandola con la tutela della libertà d'espressione, parte dei suoi dipendenti non sembra d'accordo con lui. La polemica è entrata nel vivo quando lo staff del presidente statunitense, Donald Trump, ha sponsorizzato alcuni post su Facebook in cui si accusava Joe Biden, avversario di Trump nella corsa alla Casa Bianca, di aver offerto un miliardo di dollari all'Ucraina affinché insabbiasse l'indagine giudiziaria che coinvolgeva il figlio Hunter. I collaboratori di Biden hanno subito chiesto di rimuovere il contenuto, in quanto non veritiero, ma da Menlo Park gli è stato risposto picche. A quel punto nell'agone è scesa Elizabeth Warren: la senatrice del Massachusetts ha provocatoriamente comprato uno spazio su Facebook scrivendo che Zuckerberg aveva appoggiato Trump per un secondo mandato. Falsità assoluta, ovviamente, ma utile alla candidata alla Casa Bianca per mettere in luce le contraddizioni del sistema. Infine è arrivata Ocasio-Cortez, che durante l'ultima audizione al Congresso di Zuckerberg, dopo averlo condotto in un vicolo cieco con una raffica di domande, ha concluso che, allo stato attuale delle cose, «in vista delle elezioni del 2020 potrei pagare per comunicare a uno specifico target di elettori la data sbagliata del voto».
Il tema è complesso, e non riguarda solo gli annunci politici ma in generale il ruolo che Facebook, con i suoi 2,4 miliardi di utenti in tutto il mondo, si è trovato a ricoprire nel corso del tempo. Il fatto che un'azienda privata gestisca lo spazio virtuale in cui si sviluppa gran parte del dibattito pubblico attuale pone necessariamente una serie di questioni. In Italia in queste ore fa discutere la proposta del deputato Luigi Marattin (Italia Viva) che vincola la presentazione di un documento d'identà per l'apertura di un profilo social.
L'annoso dilemma è se Facebook sia tenuto a esercitare un controllo sui contenuti che ospita. A chi dice di sì, si contrappone chi si chiede quale autorità abbia Facebook per decidere cosa può e cosa non può essere pubblicato. Zuckerberg, dopo aver rifiutato a lungo tale ruolo (di «editore», come si è detto), ha dovuto farci i conti.
Soprattutto dopo lo scandalo del Russiagate, che ha obbligato la piattaforma a dedicare energie e denaro al filtraggio dei post e alla lotta alla disinformazione. Ma le contraddizioni restano. E il dibattito, come mostra la lettera interna diffusa dal New York Times, è appena cominciato.
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