I giudici lumaca fanno perdere 600mila euro

Mai incassato il patteggiamento di Tim. Nuovo flop del tribunale di Milano

I giudici lumaca fanno perdere 600mila euro

Seicentomila euro per un colosso come Tim sono una briciola. Nelle casse esauste della giustizia italiana, quei soldi a qualcosa sarebbero invece serviti. La sostanza è che ora la giustizia rischia di non vedere neanche l'ombra dei quattrini che l'azienda telefonica avrebbe dovuto pagare dopo avere patteggiato una pena. Motivo: semplicemente, la magistratura si è dimenticata di passare all'incasso. La sentenza che condannava Tim è rimasta lì, dimenticata in un cassetto, per sette lunghi anni. Quando un giudice si è svegliato e ha presentato il conto all'azienda, si è sentito rispondere che ormai era troppo tardi. Sentenza prescritta. E la Cassazione - anche se non è detta l'ultimissima parola - ha dato ragione al colosso. Seicentomila euro, adieu.

La condanna di Tim era arrivata nel corso di un processo segnato, come si vedrà, anche da un'altra stranezza: quello scaturito dall'inchiesta che nel 2011 l'allora procuratore aggiunto Alfredo Robledo aveva condotto sui bilanci dell'azienda, ed in particolare sulla prassi di tenere vive cinque milioni di schede telefoniche, con ricariche periodiche di un centesimo, allo scopo di presentare al mercato borsistico una quota di clienti sensibilmente più alta del reale. Con l'accusa di ostacolo alla vigilanza della Consob, Robledo aveva portato a processo tre manager della compagnia, e aveva incriminato la stessa Tim in base alla legge 231 sulla responsabilità delle società per azioni.

Quando l'indagine arriva all'udienza preliminare, il fascicolo si spezza in due. Il processo ai manager viene spedito a Roma per competenza territoriale, mentre Tim sceglie di chiudere la faccenda patteggiando il versamento di seicentomila euro. La sentenza è del 10 luglio 2012, due settimane dopo diventa definitiva. Si tratta solo di eseguirla.

Invece non accade nulla. Fino al 2019 quando finalmente viene notificata a Tim la cartella esattoriale per la riscossione della sentenza. Troppo tardi, fa presente lo staff legale dell'azienda: è proprio la legge 231 a stabilire che le «sanzioni amministrative si prescrivono entro cinque anni» e che «la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio». Per chiedere i soldi a Tim c'era tempo, insomma, solo fino al luglio 2017.

Quei soldi, per quanto pochi siano per essa, Tim ritiene di non doverli versare. Il primo ricorso dell'azienda, davanti al giudice preliminare di Milano, viene respinto: fino a quando non finisce il processo ai manager indagati, dice il giudice, la prescrizione è ferma. Ma Tim non molla, va in Cassazione: e lì anche la Procura generale le dà ragione, il rappresentante dell'accusa chiede «l'annullamento senza rinvio dell'ordinanza e l'annullamento dell'ordine di esecuzione della sanzione pecuniaria». E la Corte annulla, rimandando gli atti a Milano, definendo «irragionevole» la decisione del giudice ambrosiano che a questo punto è destinata a venire asfaltata.

Nel frattempo, che fine ha fatto il processo ai manager sotto accusa per la stessa vicenda? Dopo essere approdato a Roma, il processo si è concluso in primo grado con una sentenza di assoluzione.

Che è diventata definitiva poco dopo, perchè la Procura della Capitale, che aveva chiesto la condanna dei tre dirigenti, ha presentato appello: ma lo ha fatto un giorno dopo la scadenza dei termini previsti dal codice. Altro ritardo, e l'indagine del povero Robledo sulle allegre schede di Tim finisce con un nulla di fatto.

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