In tanti sapevano che Moussa Sangare era in una situazione di disagio. Non diciamo psichico (quello lo accerterà la perizia) ma sociale di sicuro. Lo sapevano il sindaco di Suisio, il medico di base, gli assistenti sociali del paese. Ma nessuno ha potuto fare molto per quel ragazzo promettente ma perso, che lavorava sì e no, che spesso si addormentava di fronte a casa, gettato a terra sfatto dalla droga.
La prima richiesta d'intervento era stata inoltrata nel luglio 2023 quando Sangare aveva dato fuoco alla cucina dell'appartamento in cui abitava insieme alla madre e alla sorella minore, 24enne. Il sindaco aveva firmato un'ordinanza di inagibilità dell'immobile al secondo piano della palazzina di via San Giuliano.
Nei mesi successivi la sorella aveva provato anche a sollecitare un intervento sanitario, che sarebbe caduto nel vuoto e a cui non è seguito nemmeno un Tso. Sangare era stato denunciato alla Procura tre volte, l'ultima a maggio per l'ipotesi di maltrattamenti familiari. Era stato attivato il codice rosso dal pm di Bergamo. Non erano state adottate - si apprende - misure cautelari perché Sangare non aveva avuto più rapporti con la madre e la sorella.
Insomma, i segnali del disagio c'erano, anche piuttosto evidenti. Ma, come spesso accade in situazioni come quella di Moussa, non avviene una vera e propria presa in carico da parte dei servizi sociali. E le storie restano in una specie di limbo. Finché non esplodono.
A fare da sottofondo al disagio sociale (Moussa lavorava si e no, viveva abusivamente in una stanza senza elettricità e nella più totale sporcizia) c'è anche l'elemento droga. Nel suo periodo trascorso a Londra e negli Stati Uniti, quando ancora sognava di diventare un rapper di successo, ha cominciato a fare uso di Lsd e chissà cos'altro. «Abbiamo fatto di tutto per liberarlo dalla dipendenza - denuncia Awa, una delle sorelle - per affidarlo a chi potesse aiutarlo, ma lui ha sempre rifiutato». Con i Serd, i servizi per le dipendenze, funziona così: non basta che sia un parente a segnalare l'abuso di droghe, deve essere il diretto interessato a chiamare e a presentarsi di sua spontanea volontà dai medici per chiedere aiuto. È un atto di «buona volontà» che gli psicologi considerano già come un primo passo verso la disintossicazione. Moussa però non si è mai presentato negli studi medici del Serd, non ne ha mai voluto sapere. E ha continuato a finire sempre più a fondo, a un passo dalla strada.
Di casi di fragilità sociale (e psichica in seconda battuta) ce ne sono tantissimi, molto spesso sommersi: non sempre riescono a essere intercettati e presi in carico dalle istituzioni. «Da un paio di anni stiamo lavorando per essere più presenti sul territorio, senza aspettare che sia lo stesso paziente a presentarsi da noi - spiega Luca Moltrasio, direttore del Dipartimento Salute mentale e dipendenze dell'Asst Bergamo Ovest - Facciamo rete con il terzo settore, presente nelle stazioni, nelle piazze, nei locali, e cerchiamo di intercettare precocemente il disagio, fondamentale per ridurre i rischi. Ma non sempre è facile ed è necessario far fronte al problema della carenza di personale, sia tra i medici sia tra gli assistenti sociali. Servono servizi specialistici, riferimento per educazione e cura. Cerchiamo di promuovere modelli di vita sana tra i giovani, ben consapevoli che l'abuso di sostanze nasconde altri problemi». Il disagio sommerso. Ecco dove era nascosto Moussa. Esattamente in quel contesto. Solo con i suoi mostri. Registrato in qualche database per la questione della cucina data a fuoco e per i maltrattamenti in famiglia.
Ma mai preso in carico dai servizi sociali. Lui non voleva. La cronaca scoperchia un vaso di Pandora: quello dei disturbi mentali inascoltati (prima psicologici e in seconda battuta psichici) che, mescolati a disagi sociali, creano una formula deflagrante.
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