Due errori, uno dopo l'altro, trasformano l'inchiesta della Procura di Milano sui camici antivirus in un ordigno che rischia di deflagrare sotto la maggioranza di centrodestra che governa la Lombardia. Non solo perché spingono la magistratura a iscrivere il presidente Attilio Fontana nel registro degli indagati per turbativa d'asta, ma soprattutto perché raccontano che né Fontana né suo cognato Andrea Dini, indagato insieme a lui, hanno detto subito e pubblicamente tutta la verità sulla storia dei 75mila camici dapprima venduti e poi regalati alla Lombardia dalla Dama, la società di Dini e di sua sorella Roberta, moglie del presidente. Una mancanza di trasparenza che ora rischia di fare danni ancora maggiori di una inchiesta giudiziaria in cui Fontana è convinto di poter dimostrare la sua innocenza. E provare che nessun danno la Regione ha subito dal suo intervento nella vicenda.
Ma gli errori restano. Il primo lo fa Andrea Dini quando gli arrivano sotto casa gli inviati di Report e gli chiedono di spiegare la storia dei camici forniti alla Regione. E li Dini dice una bugia quasi puerile, spiega che si trattava di una donazione che nel caos contabile del lockdown i suoi impiegati avevano fatturato per errore e che la fattura venne subito stornata. Agli inquirenti basta poco per scoprire che la storia è ben diversa: Regione e Dama avevano fatto un contratto per la fornitura dei camici a pagamento, e solo dopo che la Regione aveva disposto il pagamento Dini aveva deciso di rinunciare trasformando la vendita in regalo. Dini manda la mail il 20 maggio, quando Report sta già lavorando all'inchiesta.
La bugia di Dini può essere figlia della fretta, una scusa buttata lì a botta calda davanti a una domanda imbarazzante. Poi però arriva il secondo errore, quello del presidente Fontana, che nei giorni successivi cerca di cavarsi d'impiccio spiegando di non avere saputo nulla della vicenda. Ma omette di rendere noto un dettaglio cruciale: quello di essere stato lui a indicare al cognato l'opportunità di rinunciare al pagamento, e di avere persino cercato di rimborsarlo di tasca propria per il mancato guadagno. Fontana era pronto a scucire 250mila euro per evitare che la grana gli esplodesse tra le mani.
Eppure non c'era nessun buon motivo per sperare che la cosa non venisse a galla. Per mandare il bonifico a Dini, Fontana si rivolge a una banca svizzera dove ha dei fondi, parte dell'eredità lasciatagli da sua madre e regolarizzata a suo tempo con uno scudo fiscale. Visto che non c'è una fattura, la banca rifiuta il bonifico. Ma comunque, visto anche che di mezzo c'è un politico, segnala tutto alla Banca d'Italia. Che gira tutto in Procura. Dal momento in cui ricevono la segnalazione i pm milanesi sanno già che l'approdo della loro inchiesta è al piano più alto del Pirellone.
E adesso? Ieri Fontana passa la giornata col suo difensore Jacopo Pensa a studiare le contromosse. Sul fronte giudiziario, secondo lo staff del governatore non cambia niente: quando venne stilato l'accordo tra Regione e Dama per i 75mila camici Fontana non ne sapeva nulla e non intervenne in alcun modo, come ha confermato venerdì Filippo Bongiovanni, il manager regionale che firmò l'accordo.
E il momento dell'eventuale reato era quello. Tutto quanto accaduto dopo non ha a che fare col codice penale ma semmai con le regole della politica. Ma anche su quel versante Fontana è convinto di poter uscire da un momento oggettivamente difficile.
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