I pm di Milano alla sbarra. "Prove nascoste su Eni"

In tre casi documenti decisivi rimasti nel cassetto. De Pasquale e Spadaro rischiano fino a due anni

I pm di Milano alla sbarra. "Prove nascoste su Eni"

«Siamo quasi al livello di Erdogan». Il procuratore aggiunto della Repubblica di Milano, Fabio De Pasquale, nell'ultima udienza aveva evocato addirittura la Turchia davanti al rischio di venire rinviato a processo per la sua gestione del processo Eni. La polemica frontale contro i colleghi che lo hanno messo in stato di accusa non basta a salvare il magistrato dal finire sul banco degli imputati. Ieri De Pasquale viene rinviato a giudizio insieme al suo ex braccio destro Sergio Spadaro. Tempi brevi: il processo ai due per rifiuto d'atti d'ufficio inizierà davanti al tribunale di Brescia il prossimo 16 marzo. Il reato di cui De Pasquale e Spadaro dovranno rispondere è punito con il carcere fino a due anni.

Si materializza dunque la situazione inedita di un magistrato importante, e tuttora in una posizione chiave, che si trova in contemporanea a indossare i panni di imputato. Sì, perché De Pasquale non è solo il protagonista (l'eroe, per una parte della sua categoria) dell'unico processo a Silvio Berlusconi finito con una condanna, l'inchiesta sui diritti tv comprati da Fininvest. É anche il capo del settore corruzione internazionale della Procura di Milano, creato su misura per lui, e in questa veste sta gestendo l'assistenza alla magistratura belga nell'indagine sul Qatargate e l'ex eurodeputato piddino Antonio Panzeri. Solo il Consiglio superiore della magistratura potrebbe risolvere l'imbarazzante situazione, spostando De Pasquale ad un altro incarico fino all'esito del processo. Ma in questo momento il Csm non esiste, visto che non si sono ancora riusciti a eleggere i consiglieri laici. Così De Pasquale per ora resta al suo posto.

Eppure le accuse che gli vengono rivolte, e che ieri il giudice preliminare bresciano Christian Colombo ritiene abbastanza concrete da disporre il processo ai due colleghi, se fossero dimostrate investirebbero in pieno il metodo impiegato da De Pasquale per condurre un altro processo di grande rilievo, quello ai vertici di Eni per la presunta corruzione del governo nigeriano. Per tre volte, nel corso delle indagini, la Procura milanese si sarebbe imbattuta in prove in grado di aiutare la difesa, e per tre volte se le sarebbe tenute nel cassetto. Erano tutte prove in grado di minare la credibilità del superteste Vincenzo Armanna, utilizzato da De Pasquale per incriminare per corruzione l'amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni. La più eclatante di tutti, il video in cui il giorno prima di presentarsi in Procura Armanna annunciava a un sodale la sua intenzione di coprire «con una montagna di m*» i vertici dell'azienda di Stato. Il video viene trovato dalla Procura di Torino, trasmesso alla procura di Roma e da lì ai pm milanesi: ma non viene mai depositato agli atti del processo.

Prendendo la parola nell'udienza scorsa, De Pasquale aveva detto che le sue erano state «valutazioni fatte da un pm in dibattimento. Se si possono sindacare con lo strumento penale le valutazioni che fa un pm in dibattimento, beh, non dico che siamo a livello di Erdogan, però quasi».

Ma lo stesso De Pasquale sa bene che a metterlo nei guai non sono state le singole «valutazioni», ma il furore quasi agonistico con cui ha condotto il processo a Eni: un processo che, dopo le assoluzioni nel filone gemello sulle presunte tangenti in Algeria, il pm non poteva permettersi di perdere. E che invece perse, nonostante il video e gli atti insabbiati che ora gli si ritorcono contro, e che non sono l'unica anomalia di quel processo.

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