L'irritazione di Matteo Salvini nasce tutta da un dato inequivocabile. Nella legislatura europea 2014-2019 Fratelli d'Italia non aveva neanche un europarlamentare, mentre da poco più di anno ne conta solo sei. Eppure Giorgia Meloni è riuscita con abilità a scalare i vertici dell'Ecr, al punto dall'essere nominata - con candidatura unitaria - presidente del partito dei Conservatori e riformisti (che è cosa diversa dal gruppo parlamentare a Strasburgo e a cui tuttora aderiscono sia i Conservatori inglesi di Boris Johnson che il Partito Repubblicano americano di Donald Trump). Insomma, un deciso passo in avanti sotto il profilo della legittimazione politica, sia in Italia che all'estero. Mentre «noi», si è sfogato in privato il leader della Lega, «siamo fermi all'angolo nonostante i nostri 29 europarlamentari». Di qui il fastidio e l'agitazione dell'ultima settimana, seguito dalle uscite pubbliche - e per molti versi polemiche - di Giancarlo Giorgetti che ha aperto alla possibilità di ragionare su un ingresso del Carroccio nel Ppe.
Se a Strasburgo i 29 voti della Lega sono congelati, infatti, la colpa è soprattutto delle scelte fatte, a partire da quella di aderire al gruppo ipersovranista Identità e democrazia in compagnia del Rassemblement National di Marie Le Pen e di Alternative für Deutschland. Una strada per certi versi obbligata, dopo che non è andato in porto il tentativo di creare un gruppo più ampio a destra del Ppe, ma che ha di fatto condannato la Lega all'irrilevanza politica in Europa. Non è un caso che in privato Giorgetti non faccia mistero di considerare «il continuo non decidere di Matteo» una delle ragioni di questa gigantesca impasse. Oggi ancora più critica proprio alla luce dell'operazione politica portata a casa dalla Meloni. Che ci sia una forte competizione all'interno del centrodestra, infatti, è cosa nota. Come non è un segreto il fatto che tra Salvini e Meloni le incomprensioni - anche personali - siano state molte e reiterate. Così è nelle cose che il leader della Lega, già alle prese con il pessimo risultato delle ultime amministrative, non abbia gradito il «sorpasso» europeo dell'alleata. E il fatto che la nomina della Meloni alla presidenza dell'Ecr abbia coinciso con l'aperura del dibattito su un possibile ingresso della Lega nel Ppe ne è la conferma. Al netto del fatto che la strada in questione pare alquanto accidentata: sia per il veto dei nordici (svedesi, finlandesi, olandesi, belgi) che già siedono tra i Popolari, sia per le grandi perplessità interne alla Lega davanti a un percorso che li porterebbe ad allearsi con il partito della mai amata Angela Merkel. Peraltro, come accade nel 1998 con l'adesione di Forza Italia, si tratta di percorsi lunghi e complicati che posso andare avanti anche qualche anno. Sul punto, comunque, Salvini resta a tutt'oggi contrario, anche perché tentare la via del Ppe significherebbe ammettere l'errore di valutazione commesso in Europa in questo anno e mezzo.
La Meloni, intanto, si gode il suo nuovo standing internazionale.
E ragiona su una agenda che le permetta di allargare gli orizzonti (magari con una visita alla Casa Bianca se Trump dovesse vincere le presidenziali). Tutto ottenuto grazie a uno sparuto gruppetto di sei eurodeputati guidati da Carlo Fidanza e dai buoni uffici di Raffaele Fitto che nel 2015 fu il primo italiano ad entrare nel gruppo Ecr di cui è oggi copresidente.
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