Quella che è stata bollata da tutti come «la priorità», rischia di diventare solo l'ennesimo disastro. Da Biden ai leader occidentali uniti, fino a quelli israeliani, salvare la vita alle persone che Hamas ha preso in ostaggio sabato portandole nella Striscia di Gaza, è stata considerata la prima operazione da portare a termine. Ma al netto delle evidenti difficoltà logistiche e pratiche, poco o nulla sta andando come sperato.
Mentre bruciano ancora negli occhi le immagini diffuse da Hamas dei bambini tenuti prigionieri dai miliziani e usati come bieca arma di ricatto, l'esercito israeliano ha confermato «che 126 civili sono tenuti prigionieri a Gaza dall'organizzazione terroristica Hamas». Persone di cui si sa poco o nulla da giorni che corrispondono ad altrettante famiglie che vivono col fiato sospeso in attesa di notizie. Tra queste anche quelle dei tre italo-israeliani scomparsi, Eviatar Mosche Kipnis e Lilach Lea Havron, la coppia di coniugi rapita nel Kibbutz di Beeri, e quella di Nir Forti, ferito e portato via dal rave musicale trasformato in campo di battaglia. Ad aggiungere ansia, la notizia confermata dallo stesso esercito del recupero di alcuni cadaveri di ostaggi durante le incursioni dei commando israeliani all'interno del territorio di Gaza. Nel pomeriggio il portavoce militare Richard Hecht aveva smentito ma sarebbero già «numerosi» i corpi recuperati. L'ala militare di Hamas ha riferito che 9 ostaggi rapiti in Israele, tra cui 4 stranieri, sono stati uccisi nei raid israeliani sulla Striscia. E anche se il presidente americano Biden, su tutti, garantisce che «gli Stati Uniti stanno lavorando come dannati» per riportare a casa gli ostaggi, facendo tutto quanto possibile, l'apprensione dei familiari dei rapiti sta lasciando il posto a rabbia e sconforto. Anche in Israele.
Nel mirino è finito il premier Benyamin Netanyahu, oggetto della protesta di piazza di almeno 200 persone che si sono riunite ieri davanti al ministero della Difesa a Tel Aviv gridando «vergogna», «Bibi dimettiti», «vergogna» e innalzando cartelli in ebraico e inglese con la scritta «portate a casa i nostri figli» con parenti che mostravano le foto dei rapiti e molte persone accanto loro in segno di solidarietà. L'attesa aumenta e le risposte mancano, col bivio militare di intervenire con forza rischiando di mettere in pericolo gli stessi ostaggi che potrebbero diventare quindi «danni collaterali». E se Netanyahu punta all'unità nazionale nella lotta contro il terrore, non mancano le voci critiche contro il primo ministro. Su tutte, l'accusa al governo per essersi fatti clamorosamente sorprendere dall'attacco senza che i servizi segreti, considerati i migliori al mondo, fossero al corrente del pericolo. Ma Bibi era già aspramente criticato per la riforma della giustizia che aveva portato migliaia di persone nelle strade e ora, membri di opposizione ma anche del governo stesso, giurano che il giorno dopo la fine del conflitto, Netanyahu sarà costretto a lasciare il suo posto. Ieri, il premier ha compiuto un sopralluogo nei kibbutz di Beeri e di Kfar Aza, due dei più colpiti dalla furia dei terroristi.
Incontrando l'esercito che sta operando sul campo ha assicurato: «La prossima fase sta arrivando, siamo tutti pronti». È guerra aperta. Mentre migliaia di persone attendono col fiato sospeso notizie dei propri cari. Sperando che la loro liberazione resti una priorità.
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