L'icona del garantismo e quella del giustizialismo. Come dire, guelfi e ghibellini nell'Italia del ventunesimo secolo. Carlo Nordio e Nino Di Matteo: tutti e due volti della televisione, entrambi osannati e ammirati. Ma, soprattutto, una coppia di magistrati. Nordio è in pensione, dopo una vita alla procura di Venezia, Di Matteo è al Csm, ma è stato sulla prima linea di delicatissime inchieste di mafia e ha esplorato la zona grigia al confine con la politica.
Punti di riferimento, in un Paese che non ama le sfumature, per destra e sinistra: quasi naturale che siano stati loro, due toghe anche se agli antipodi, ad aver collezionato più voti, alle spalle dell'imprendibile Mattarella, nella corsa al Quirinale. Novanta schede per Nordio, trentasette per Di Matteo. Più di tutti gli altri inseguitori, nell'elezione decisiva. Naturalmente, si tratta di due personaggi che vanno ben oltre gli stereotipi e le appartenenze a colpi di slogan, ma fa riflettere che siano diventati dei simboli, strattonati da una sorte e dall'altra in queste ore tumultuose.
O di qua o di là. La questione giustizia continua a dividere e questo accade perché i problemi drammatici, denunciati infinite volte, non sono stati risolti.
Anzi, la ministra Cartabia ha presentato alcune riforme, in corrispondenza delle esigenze del Pnrr, ma quella più controversa, relativa al Csm, è rimasta nel freezer. Draghi, che premeva per andare al Quirinale e scansare spine e rovi, ha traccheggiato e tergiversato come nemmeno i democristiani dei tempi d'oro. Mattarella, che era e torna a essere il presidente proprio di quell'accidentato e malandato Csm, ha preferito glissare e pattinare sul ghiaccio scivolosissimo degli scandali, delle querelle, dei guai che mortificano ogni giorno la giustizia.
Non ne ha parlato nel discorso di fine anno, in teoria quello del congedo, si è poi presentato all'inaugurazione dell'anno giudiziario, solo pochi giorni fa, al fianco dei vertici della Cassazione, oggetto di uno sconcertante braccio di ferro fra Palazzo dei Marescialli e il Consiglio di Stato.
Insomma, senza farla tanto lunga e con il dovuto rispetto per il capo dello Stato, votato oltretutto da una maggioranza larghissima e trasversale, i nodi sono ancora tutti lì. Tutti aggrovigliati, tanto da far pensare che scioglierli sia quasi impossibile.
Ma i cittadini, quelli che subiscono processi interminabili, quelli che vengono condannati con sentenze feroci e incomprensibili, quelli che restano mesi in carcere prima che qualcuno si accorga dell'errore, hanno diritto a sperare in un cambiamento.
È il Paese che vuole voltare pagina per portare un sistema antiquato e barocco, inquinato dalle correnti e dalla commistione con la politica, all'altezza di quel che ci chiede l'Europa.
All'orizzonte ci sono i sei referendum richiesti a gran voce da una platea di oltre settecentomila cittadini. La spinta che arriva a intermittenza dal Palazzo potrebbe prendere forza nelle urne, anche se non si può sottovalutare la falce della Consulta chiamata ad esaminare i quesiti.
In ogni caso i dossier sulla malagiustizia sono nell'agenda dei governi da quasi trent'anni, dall'esplosione di
Mani pulite e dalle scintille alla frontiera fra i due poteri. Draghi e Mattarella sanno che nei loro cassetti ci sono le lettere di tanti connazionali esasperati. Aspettano tutti una risposta. E l'attendono da troppo tempo.
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