C'è chi piange al telefono. Chi accusa. E chi si rifugia, al solito, nell'insulto. Nel Partito democratico il morale è a terra. Lo stop al Senato del ddl Zan è una botta tremenda che ha tramortito tutto il Pd. I dem hanno investito, politicamente parlando, tanto, forse troppo su questo provvedimento. E la bocciatura, che forse non si aspettatavano ma certo non li sorprende, ha fatto saltare i nervi ai vertici. Da Enrico Letta in giù, le reazioni scomposte non si contano.
Il segretario del Pd c'è rimasto parecchio male. Dopo aver martellato col ddl Zan per settimane a inizio estate, Letta aveva "dimenticato" la norma per calcolo strategico: troppo scomodo parlare di un tema così divisivo mentre il voto per le amministrative si faceva sempre più vicino. Poi, incassato il bel risultato nelle grandi città, ha deciso di estrarre di nuovo dal cassetto il tema dei diritti Lgbtq, convinto che i tempi fossero maturi per l'approvazione. E ha tirato dritto, nonostante le sirene d'allarme sui numeri ballerini. Ma ha fatto male i calcoli e ha sbattuto sul voto di Palazzo Madama. Per scaricare le proprie responsabilità - e il segretario dem ne ha parecchie - ha scelto di raccontare una realtà che vede e fa comodo, solo a lui: "Hanno voluto fermare il futuro. Hanno voluto riportare l'Italia indietro. Sì, oggi hanno vinto loro e i loro inguacchi, al Senato. Ma il Paese è da un'altra parte. E presto si vedrà", ha commentato su Twitter poco dopo la votazione, anche per nascondere sotto il tappeto il polverone che si è scatenato nel suo partito.
Perché la situazione al Nazareno è tesissima. Le correnti del Pd si sono spaccate sul ddl Zan: chi lo sosteneva a spada tratta - Monica Cirinnà e compagnia - e chi, dall'ex capogruppo Marcucci ai filorenziani, ha spinto fino all'ultimo per rimettersi a lavorare su un testo troppo divisivo. Così, quando la tagliola ha troncato il disegno di legge, in casa dem è subito partita la caccia al colpevole. Valeria Fedeli, già ministra e nome di peso tra i democratici, non ha perso tempo e ha cominciato subito a puntare il dito: "Letta mi aveva assicurato che c'erano i numeri. Bisogna chiedere le dimissioni di chi ha gestito questa vicenda, nel gruppo e in Commissione Giustizia". Poi, riposta l'ascia di guerra (interna), si è abbandonata allo sconforto ed è intervenuta al telefono a Un giorno da pecora, singhiozzando per qualche secondo: "Sono molto triste, purtroppo non è passato", prima di interrompere il collegamento.
Altri hanno deciso di affidarsi ai cari vecchi insulti, tanto popolari a sinistra quando si incassa una sconfitta ma non la si vuole ammettere. È il caso di Laura Boldrini, ex presidente della Camera e paladina buona per tutte le cause, che si è scagliata contro la coalizione che ha affossato il ddl Zan: "C'è una destra retrograda, illiberale, compatta e presente come se fosse uno dei momenti più importanti per bloccare il dibattito, questo fa capire quanta omofobia c'è in questa scelta".
Con buona pace della libertà d'espressione, minacciata dall'articolo 4 del testo che è stato bocciato. L'unica libertà riconosciuta è quella di insultare lo schieramento avversario. La Boldrini si è dimenticata il sempreverde "fascista", poi la serie di pregiudizi offensivi sarebbe stata completa.
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