Il ragazzino è già alto. Capelli neri. Così neri che nel paese tutti ripetono «sono blu, come quelli dei personaggi a fumetti». È domenica mattina, è la metà degli anni Sessanta. Il ragazzino se ne sta immobile nell'atrio del collegio vescovile di Mondovì, fermo davanti a una colonna. Potrebbe baciarla tanto è vicino. Ma non osa, si limita ad abbracciarla. Anni dopo, molti anni dopo, a New York, un paparazzo lo riprenderà nella stessa posa: abbracciato però a Naomi Campbell.
Flavio Briatore ha quattordici anni, non ha ragazze, non ha soldi, non ha nulla di quel che avrà però in tasca tiene un tubetto di maionese Calvè. È il suo tesoro, è la chiave per aprire la vita, è il piccolo ponte levatoio da abbassare per fuggire e correre ad assaporare quell'esistenza «che desideravo con tutto il cuore respirare a pieni polmoni e che non era lì, tra Mondovì e Verzuolo, il mio paese, provincia Granda...». Una vita che sarà di molti alti e luci abbaglianti e qualche basso e luci spente. Poche, per fortuna sua e di tutti coloro che vorrebbero emularlo, che in lui oggi si rispecchiano, affascinati dai suoi misteri, dalla vita billionaire, le donne, la F1, la ricchezza e da quel suo modo di parlare di politica come se le parole fossero un'accetta. Oggi compie 70 anni Flavio Briatore, «però me ne sento quaranta e questa pandemia mi ha costretto ad essere ancora più presente» dice. «Avevo ristrutturato l'organizzazione dell'azienda, di Billionairelife, prendendo un general manager al mio fianco, tutte persone in gamba e di fiducia, ma quando il mare è a forza nove, sul ponte deve esserci anche il comandante. Queste sono onde grandi, gigantesche, mai viste così».
A quattordici anni, Flavio è un ragazzino che da tre ore sta davanti a una colonna in punizione. «Mio padre» ricorda «veniva a trovarmi ogni due settimane, quando la corriera lo permetteva. Le prime volte attendeva per i colloqui assieme agli altri genitori nella grande sala predisposta per gli incontri. Solo che via via spuntavano i miei compagni ma non io. Allora domandava ai bidelli: Ma dov'è mio figlio? Chi è il suo?, Flavio, si chiama Flavio Briatore?. Ah... Briatore è di nuovo in punizione nella sala delle colonne. Se vuole vederlo deve seguire il corridoio, avanti di là.... Alla fine papà smise di aspettarmi con gli altri genitori. Ad ogni visita andava dritto nella sala delle colonne. Non c'era rischio di sbagliare: ero sempre lì».
La maionese Calvé.
«Non mi piaceva. Questa fu la mia fortuna. Perché invece piaceva, e tanto, alla maggior parte dei miei compagni di classe. Il refettorio diventò così il mio consiglio d'amministrazione. Era lì che facevo squadra e pianificavo le strategie».
Pensava al business già allora?
«No, al calcio, nel pomeriggio. Facevo le formazioni e sceglievo sempre i migliori. Se giochi con me, ti do la maionese.... Ed era fatta. Cinque anni di collegio. Ho imparato tanto».
I preti alle origini di Briatore futuro manager, imprenditore, playboy...
«Sì, quel collegio ha influito. Perché eravamo tutti uguali, io figlio di un maestro di paese e il mio compagno con il genitore in Maserati. Appena entrati, tutto si azzerava. Contavi tu. Stesse chance di farcela, di emergere, era tutto nelle nostre mani. E così mi sono ritrovato ad essere sempre il capo classe. Ma non ero io a prendermi il ruolo, erano gli altri ad assegnarmelo. La leadership è così, viene riconosciuta. Certo, la Calvè era stata utile».
E le punizioni attaccato alla colonna.
«Anche quelle. Le mie duravano meno. Di prassi dovevano essere di due o tre ore, alla fine restavo abbracciato al pilastro un'ora, a volte solo 45 minuti».
Aveva corrotto i preti con la Calvè?
«Macché, è che come capo classe, appena buttava male per qualche compagno, mi facevo avanti io. Tanto alla colonna ero già abituato e se qualcun altro combinava qualche sciocchezza, davanti al rettore mi alzavo e scusi, sono stato io... dicevo. Alla fine anche i professori avevano capito che coprivo qualcuno, per cui mi davano punizioni ammorbidite. E la leadership in classe aumentava. A volte passavo direttamente dalla messa delle cinque e mezza del mattino in cui facevo il chierichetto alla colonna nell'atrio. Non erano belle mattine».
Leadership. Servirebbe al Paese per affrontare questa emergenza virus?
«Purtroppo siamo a un punto di non ritorno. Quando finirà, il mondo e i rapporti e il lavoro saranno cambiati. Ma non possiamo restare fermi e attendere il vaccino, bisogna trovare un modo per ripartire. Penso alle fabbriche, al commercio, alla ristorazione, al turismo. Sono convito che alla fine ce la faremo, ma intanto è uno tsunami e se non si reagirà bene, se non riusciremo a gestire i cambiamenti che ci attendono, il rischio è che porti via l'economia d'impresa. Purtroppo credo che l'Italia si ritrovi con il governo più scarso nel momento più terribile. E si è fatta trovare impreparata. È come per l'acqua alta a Venezia: quando gli esperti ti avvisano che arriverà, ti prepari. Non vai mica in piazza San Marco con i mocassini. Per il covid-19 il governo ha invece agito così. Nei nostri ospedali, fino al 21 febbraio, si interveniva seguendo il regime ordinario, come fossero polmoniti, mancavano mascherine, protezioni, anche io probabilmente ho fatto il coronavirus senza saperlo. E poi il governo è andato a cercare mascherine all'estero con metodi sbagliati e altri Paesi ci sono passati davanti. In guerra non vai a pagare con gli assegni, servono i servizi segreti, i cargo militari, servono valigie piene di soldi e vedrai che le mascherine arriveranno subito... I nostri politici ora prendono ad esempio chi sta peggio, ah ma in Spagna.... Pensino alla Germania che sta già ripartendo... Non serve un uomo forte, serve un team forte, gente preparata, capitanata da uno che conti».
Mario Draghi è sulla bocca di tutti.
«Sarebbe l'ideale. Perché i coronabond sono come azioni di un'azienda, l'azienda Paese. Se l'azienda è guidata da Di Maio o Conte ci pensi su prima di comprare le sue azioni, se la guida Draghi è diverso. È così che ragiona l'Europa».
Torniamo in collegio. Chierichetto, ha detto?
«Eh, certo, ero al Vescovile, mica al collegio di Bella ciao...».
Dal Vescovile a Naomi Campbell?
«Prima però le ragazze dell'istituto di fronte. Le incontravamo solo la domenica, al cinema... Filmoni tipo Rin-tin-tin erano per noi un evento. Quanti amori platonici...».
Platonici?
«Platonici! Biglietti d'amore da scambiarci al cinema, al buio, quelle cose lì».
Era già nata la rabbiosa voglia di evadere dalle campagne della Granda?
«Certo. La logistica di dove vieni al mondo è fondamentale nella vita. Non ero nato a Milano, a Roma, a New York, ero nato a Verzuolo, nel cuneese. Per cui sono cresciuto con la convinzione che se non fossi riuscito ad andare via avrei fatto la comparsa per tutta la vita. E questa sensazione divenne stimolo: mi diede la forza per lavorare di più, pensare di più, lottare di più per prendere le opportunità al volo. Oggi è tutto molto diverso. Più facile. All'epoca, solo per raggiungere Cuneo, 30 chilometri, dovevo aspettare ore la corriera. A Torino ci andai con la scuola per Italia '60, quando avevo ormai 10 anni. A Roma a 15, con il collegio, per incontrare Papa Paolo VI».
La prima opportunità che prese al volo?
«A sedici anni o poco più. Nei campi. Con un mio amico che aveva un camioncino ci mettemmo a raccogliere gli scarti della frutta a fine giornata. Guadagnavamo anche bene. Li compravamo per nulla, a volte ce li regalavano, e li portavamo alle ditte di confetture e succhi. Fu il mio primo lavoro. Poi l'impiego come assicuratore, alla Ras. Grazie a quello vidi per la prima volta Milano. Frequentai un corso estivo, era luglio, un caldo boia, ci mandavano in giro tutto il giorno, facevamo chilometri. Dovevamo vendere polizze per famiglie destinate ai bambini appena nati. In Comune prendevamo gli elenchi dell'anagrafe e via, partivamo. Bussa di qui e di là, ci avevano insegnato varie tecniche: se aprono la porta mettete un piede a metà così non potranno chiuderla, se vi accoglie una signora anziana, è la nonna, guardatela con gentilezza dritto negli occhi, spesso conta più lei dei figli genitori del piccolo... Non ci avevano però avvisato che ai tempi la mortalità era ancora alta, per cui poteva succedere che il neonato dopo qualche giorno morisse. Mi è capitato di esordire con un sorridente congratulazioni per il lieto evento... e ritrovarmi inseguito a scendere di corsa giù per le scale. Ho imparato tanto in quel periodo. Per questo resto convinto che o si ha una grande passione per lo studio e una spiccata attitudine, e allora è giusto seguirle e frequentare l'università, altrimenti è tempo perso, anni buttati che invece servirebbero per farsi strada nel lavoro. Io a 17-18 anni ero ormai autonomo dalla famiglia. Non pesavo finanziariamente e mi comprai anche la prima auto. E comunque a modo mio ho pure frequentato l'università: assumendo negli anni diversi laureati e bocconiani».
Suo padre Giacomo la voleva laureato. Le ha mai detto ok, hai fatto bene a non seguire i miei consigli...?
«A suo modo sì, era soddisfatto».
E sua madre Caterina?
«Era un po' la vittima, perché io ero davvero tanto vivace. E mio padre era molto, troppo severo. A quei tempi non era come oggi, col padre si parlava poco. Lei invece era vicina a noi, a mio fratello e mia sorella. Le volevo molto bene, più che a mio padre. Insegnavano entrambi, solo che mio padre me lo sono ritrovato poi alle elementari sia come maestro che come preside. Per di più, un anno, mi bocciò. Ma è mai possibile?».
Non aveva toccato libro.
«Ma no, ero un alunno normale, però ero suo figlio. E lui decise di far ripetere l'anno a tre o quattro della classe, quelli sì dei veri asini. Solo che voleva fosse chiaro che lui non faceva preferenze per nessuno. Così, a scanso di equivoci, bocciò anche me....
Quanto la condiziona oggi, con suo figlio Nathan (dieci anni) il rapporto avuto con suo padre?
«Sono diverso. Io e Nathan parliamo tantissimo, a volte mi rivolgo a lui come fosse un adulto. Ho già iniziato a fargli capire l'importanza delle radici della nostra famiglia, da dove provengo io. Appena finirà questa emergenza, lo porterò a Verzuolo, voglio che veda da dove sono partito. Lui è abituato a vivere in un certo mondo e non voglio che pensi che la normalità sia questa. Anche a scuola, deve dimostrare di essere bravo, non mi interessa che sia il primo, basta che resti nella media, diciamo un po' più su. Terminato il liceo, vorrei riuscire a capire se avrà la testa per proseguire in futuro quello che ho iniziato io, prendendosi cura delle nostre aziende e delle persone che lavorano per noi, meritandosi la loro fiducia. Preferirei questo, però se mi dovesse invece dimostrare attitudini diverse, bene uguale. Ciò che conta è che non perda anni frequentando università che non gli interessano, che non mi arrivi a 26 e 27 bighellonando in Porsche. Purtroppo è pieno il mondo di gente di successo con dei figli pirla. E questo non voglio che accada. Quel che conta è che si dia sempre da fare».
La sua prima macchina?
«Una Seicento Fiat. Porte controvento. Un freddo bestia. Spifferi ovunque, sembrava di essere su un turboelica».
Briatore in 600, meraviglioso. E dove ci volava?
«Ovunque in zona. Poi un giorno abbiamo deciso con degli amici la grande avventura: Monte Carlo. Volevamo capire e vedere di persona chi abitava quel mondo di cui sentivamo parlare sui giornali. All'epoca c'erano poche informazioni, solo quelle sui principi, su Onassis. Al ritorno rimanemmo senza benzina. Pochi soldi e calcolo sul pieno sbagliato. Carburante a parte, fu un momento fondamentale della mia vita: tornai dal Principato convinto di potercela fare.
A far cosa?
«A diventare quel che sono».
Perché?
«Quando con la 600 arrivammo sul porto di Monte Carlo e scendemmo a fare due passi, per la prima volta vedemmo delle barche. Erano dei 20 metri, ma a noi sembravano l'Andrea Doria. Oggi sarebbero dei tender. Era però la gente sopra, erano quei ricchi turisti a incuriosirmi, erano le loro facce, il loro modo di vivere. Guardandoli da vicino avevo capito che, in fondo, erano gente come noi. Ecco perché di notte, guidando la mia 600 ad un tratto mi girai verso gli altri amici e dissi: Ragazzi, se ce l'hanno fatta loro, possiamo farcela anche noi».
Quasi le parole pronunciate a Luciano Benetton quando entraste in F1.
«Era l'89, dopo qualche mese lo chiamai: Luciano, sei di buono umore o di cattivo?. Di buono. Meglio, così non mi prendi per matto. Sai che c'è? C'è che possiamo vincere il mondiale».
Ma in quel momento la neonata Benetton arrivava ultima...
«Quando Luciano mi parlò di corse la prima volta, era fine '88, la F1 mi spaventava, sembrava la Nasa, poi capii... Mi accorsi che era un mondo dominato dall'emotività e in cui molte persone tra le opzioni più semplici e chiare e quelle più complicate sceglievano sempre quest'ultime. Era gente che se aveva davanti una porta e una finestra pensava fosse più comodo uscire dalla finestra. Una volta compreso questo non fu difficile arrivare a vincere. Creai un gruppo di tecnici e persone affiatate, stavo in piedi con loro fino alle 3 del mattino, alla fine furono 7 campionati del mondo vinti, 4 piloti e 3 costruttori, unico manager a farcela con due team diversi e unico ad aver conquistato Gp con tre squadre diverse: Benetton, Ligier e Renault. Lanciando due fenomeni: prima Schumacher e poi Alonso».
Quando è tornato a Monte Carlo?
«Per la F1. A proposito di non dimenticare mai le proprie origini: ricordo che proprio a Monte Carlo, credo fosse il 1992, avevo Schumacher in squadra da poco. Alloggiavamo al Beach, da cui raggiungevamo il paddock a piedi. Michael guardava la collina in alto e i tifosi che campeggiavano con le tende e i sacchi a pelo. Sai Flavio mi disse, anche io fino a pochi anni fa venivo qui a vedere il Gp e dormivo su quella collina... Dopodiché cambiammo discorso. Ad un tratto però aggiunse Ah, volevo dirti, la mia stanza al Beach è un po' troppo rumorosa... Lo interruppi subito: Michael, nessun problema, stanotte se vuoi puoi andare a dormire in tenda su quella collina... Capì subito, scusa, volevo dire un'altra cosa...».
Da geometra ad assicuratore ad amico di Luciano Benetton. In mezzo?
«A fine anni Settanta lavoravo in Borsa a Milano con il finanziere Giorgio Patroncini, alla Finanziaria Generale Italia. Prima ero stato agente Ras a Ceva, un freddo cane, e gli affari mi andavano bene, ci sapevo fare. Poi a Cuneo per un'importante commissionaria di Borsa, quindi l'apertura di un'attività nel settore del leasing, e il periodo come ad alla Paramatti. Luciano lo conobbi a cena da un amico comune a Milano. Ci trovammo subito. Anche lui era agli inizi, i negozi non si chiamavano ancora Benetton. Luciano è stato parte integrante del mio successo. L'idea della F1 venne a lui mica a me. Però è tutta la famiglia Benetton che sento come fosse la mia. Così come devo molto a Patroncini. Non dimentico chi mi ha aiutato, sono riconoscente, mai stato uno che usa la gente o la butta via come kleenex».
La ricchezza.
«Più che la ricchezza ho sempre cercato di fare cose. Quando arrivi a stare bene, non ha importanza avere di più per essere il più ricco del cimitero. È il successo a gratificarmi. Perché il successo è il risultato del tuo lavoro. Non sono mai stato attaccato al denaro, sono un generoso, chi mi conosce lo sa».
C'è tanta luce nel suo racconto, ma ci sono stati anche dei momenti bui. La latitanza a inizio anni '80. Le inchieste per gioco d'azzardo.
«Se fossi stato un attimo più sveglio non mi sarebbe successo assolutamente niente. È che all'epoca avevo trent'anni e la voglia di giocare sempre a poker o a qualsiasi cosa. Da allora non ho mai più toccato un mazzo di carte. Venni tirato dentro da gente più furba e smart di me. Ero simpatico, avevo facilità nel conoscere e far conoscere gente, a intrattenerla, fu tutta una cazzata. Non ho mai guadagnato niente da quel giro. Solo che poi tra i coinvolti c'era chi aveva dei precedenti e alla fine sono finito anche io nel tritacarne. Però sì, feci un grosso errore: non mi presentai dai giudici. Quando scoppiò tutto ero all'estero, ma avrei potuto tornare. Non lo feci. Fu un'enorme sciocchezza; mia e degli avvocati che pensavano si sgonfiasse tutto. Venni condannato. Ero contumace, ma lavoravo, non sono mai stato fermo, aprii molti negozi Benetton negli Stati Uniti. La pena venne condonata a fine anni '80. Gli errori ti aiutano se permettono di crescere. Se li prendi dal verso giusto. Cadi, ti rialzi, lavori e dai tutto. Il successo è la miglior vendetta contro i pettegolezzi. E adesso do lavoro a 1.200 persone».
E l'accusa di evasione fiscale per il suo yacht?
«Non sono mai stato condannato, il processo va avanti da più di 10 anni, e la Corte di Cassazione ha detto che le decisioni dei primi due gradi di giudizio erano totalmente sbagliate. Per fortuna la barca come charter ha sempre continuato a lavorare garantendo i posti di lavoro al suo equipaggio».
Flavio, le donne.
«Diciamo che sono sempre stato un po' esteta... Sono sincero, forse è un mio difetto, ma lo confesso: non potrei mai innamorarmi di una donna intelligente e brutta. Però le mie sono state tutte storie lunghe e importanti. Penso a Naomi, penso ad Heidi Klum, penso a mia moglie Elisabetta, la più importante perché mi ha donato nostro figlio. Sono rimasto in buoni rapporti con tutte a riprova che si trattava di relazioni profonde. Dopo 12 anni io e Elisabetta ci siamo lasciati, ma forse ci vediamo più di prima. Ora siamo qui insieme, con nostro figlio».
Il suo amico Ecclestone ne ha 89 e diventerà presto papà.
«Sul momento mi ha fatto effetto, poi ho pensato: bene così. Bernie avrà il suo primo figlio maschio, farà un percorso con lui che mi auguro più lungo possibile. Poi non ci sarà più. Ma in fondo non è poi così male ritrovarsi orfano di Bernie Ecclestone...».
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