In un elegante resort sulla riviera di Da Nang - sede durante la guerra in Vietnam di una base aerea americana, obiettivo di furiose offensive dei Vietcong e oggi terza città del Paese dopo Ho chi Minh, l'antica Saigon, e Hanoi - il presidente Trump è intervenuto al vertice annuale dell'Asian-Pacific Economic Co-operation, Apec.
Primario crocevia delle «economie» di 21 Paesi delle due rive del Pacifico, dagli Stati Uniti alla Cina, dalla Russia al Cile (nell'insieme circa il 60 per cento dell'economia del mondo), l'Apec è un «organismo», non un'organizzazione internazionale, e vi partecipano delle «economie», non degli Stati. Ne possono così far parte sullo stesso piano sia la Cina che un suo territorio come Hong Kong; e soprattutto la stessa Taiwan, uno Stato che Pechino non riconosce. Nella sua mobilitazione permanente contro Trump, l'ordine costituito dei grandi circuiti editoriali e televisivi euro-atlantici sta perdendo tempo a raccontarci di chissà quali contrasti tra lui e Xi Jinping, il suo collega cinese. Qualche attrito c'è, ma non è sostanziale. Conta di più il fatto che la Cina sia il principale detentore di titoli del debito pubblico americano; e conta di più uno stabile legame strutturale tra la due economie che nulla fece mai venir meno, nemmeno la guerra in Vietnam, nemmeno il massacro di piazza Tienanmen. Come d'altra parte già il viaggio nel Medio Oriente e in Europa di qualche mese fa, pure l'attuale viaggio del presidente americano in Asia è una grossa operazione diplomatica, ben progettata e ben gestita, che fa giustizia dell'ironia degli illuminati sulla sua scarsa esperienza internazionale.
Mentre gli Usa di Trump riorganizzano la loro presenza in Estremo Oriente, come europei e soprattutto come italiani dovremmo piuttosto preoccuparci del fatto che Roma non stia facendo nulla di simile per quanto ci riguarda. Eppure avremmo un punto di appoggio interessante, anche se da tempo trascuratissimo, su cui fare conto: si tratta della Banca per lo sviluppo dell'Asia, Asian Development Bank, cui l'Italia aderisce e contribuisce sin dalla fondazione nel 1966.
È un istituto internazionale di credito allo sviluppo che ha tra l'altro sede a Manila, nelle Filippine, Paese col quale decenni di flussi migratori hanno creato legami culturali e sociali finora del tutto inutilizzati. Sarebbe ora di accorgersi che i filippini, che da noi lavorano soprattutto nel settore dei servizi domestici essendo tra l'altro spesso diplomati se non laureati, sono gente del ceto medio che in patria potrebbe essere tramite di scambi e di investimenti. Qualche anno fa si era anche registrato un forte interesse di Singapore per la crescita di rapporti con l'Italia tramite Milano, occasione poi lasciata inconsultamente cadere.
Singapore è un grande volano di investimenti industriali nei Paesi suoi vicini: dal Vietnam, Paese in crescita con oltre 90 milioni di abitanti, all'Indonesia dove dispone di zone franche, e così via. I punti di appoggio ci sono, quel che manca è la volontà se non la capacità di usarli.
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