Ricorda ancora di quando, da bambino, la sua gioia più grande, come quella dei coetanei, era usare le pietre che aveva raccolto con cura, scelte una per una, per partecipare alle lapidazioni in strada, in un villaggio del distretto di Goshta, est di Kabul, Afghanistan. «Gli unici giocattoli che avevamo erano armi vere. La violenza permeava le nostre vite. Tutti i giorni vedevo persone frustate, picchiate a morte, impiccate». Non gli veniva nemmeno consentito di giocare con la sorella, «perché relazionarsi con persone del sesso opposto era peccato». Eppure Walimohammad Atai, classe 1996, oggi è un educatore pedagogico in una comunità per minori nel nostro Paese, traduttore e interprete giurato per i nostri tribunali, che ha raccontato la sua storia nel libro «Il martire mancato» (edito da Multimage), un racconto puntiglioso e agghiacciante della vita sotto i talebani, anche dopo l'arrivo delle forze occidentali. Una storia a lieto fine, la sua, dopo la fuga a 15 anni via Iran e Turchia, e l'arrivo a 17 in Italia, dove ottiene lo status di rifugiato politico.
Quando decise di ribellarsi ai talebani?
«Quando scoprii la storia di mio padre, un medico che i talebani li ha contrastati politicamente e per questo è finito impiccato, il corpo fatto a pezzi e chiuso in un sacco».
La storia di suo padre le era stata tenuta nascosta?
«Sì, da mia madre e mio zio materno, che era invece un comandante talebano. Furono loro a farmi frequentare due scuole coraniche. Poi venni reclutato da un centro di addestramento per kamikaze, in Afghanistan e poi in Pakistan».
Volevano che dedicasse la sua vita alla guerra santa e diventasse un martire?
«Sì, ce n'era uno in ogni famiglia del mio villaggio. Io ero stato scelto, insieme a quattro ragazzi più svegli e attivi, da un gruppo di arabi arrivati apposta. Ero incaricato di costruire bombe. Ma tutto cambiò quando scoprii da mia nonna paterna che mio padre era stato ucciso dalle persone che erano con me in madrasa».
Che fece allora?
«Con l'aiuto della famiglia paterna, istruita e illuminata, imparai inglese e informatica e cominciai a insegnarli ai coetanei. I soldati americani ci aiutarono, procurando penne e sedie».
Gli integralisti la presero subito di mira?
«Ci fu subito un attentato, con una bomba in cui due miei studenti furono uccisi».
Lei come si salvò?
«Ero in bici a comprare del latte. Sentii il boato».
Cosa le insegnavano in madrasa?
«Che siamo ospiti in questo mondo e dobbiamo fare quello che vuole Allah, uccidere gli infedeli e fare la jihad per andare in paradiso».
È vero che dicevano: «Le donne devono stare solo in casa o nella tomba»?
«Certo. E nulla è cambiato. Sono peggio del '96, hanno solo imparato a parlare ai media. Le donne per loro non sono esseri umani, sono spazzatura, bestie riproduttive».
Che reazione le fa il ritorno degli integralisti e il ritiro americano?
«Sono andati distrutti vent'anni di lavoro. Tutto è stato trasformato in macerie in cinque giorni. Come fosse stato un gioco. L'Occidente ci ha tradito. A questo punto poteva fare anche prima l'accordo con i talebani. Hanno perso miliardi di dollari, le vite dei loro soldati e quelle degli afghani. Per rimetterci nelle mani dei terroristi».
Le cose erano cambiate in questi anni? Un'illusione?
«Qualcosa era cambiato. È nato un nazionalismo, gli afghani vivevano sotto una bandiera, molte donne nelle città studiavano e lavoravano, c'era di nuovo una rete commerciale, stavamo diventando a fatica un Paese riconosciuto».
Tutto è perduto? O vede speranza in quei bimbi salvati all'aeroporto?
«Se americani e alleati vogliono salvarci, mettano in sicurezza il nostro Paese. Altrimenti anche quei bambini sono solo armi di propaganda».
Da dove può ripartire l'Afghanistan martoriato?
«L'istruzione è diventata una questione di vita o di morte per il mio popolo».
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