Malpensa. Irina arriva a Malpensa in tarda mattinata. Con il trolley e suo figlio Valerii di 10 anni per mano. «In fondo non mi serve altro per ricominciare» dice con la testa inclinata e rispolverando quell'italiano gutturale imparato parecchi anni prima, quando lavorava come badante a Milano.
Cerca di nascondere la tensione ma prima di uscire dall'aeroporto si gira per un attimo verso il tabellone dei voli: «Mosca - cancellato». Non l'avrebbe mai detto due settimane fa, quando è partita per la sua vacanza in Egitto. «Era il regalo di compleanno di Valerii, ne parlavamo da tanto tempo. Quel viaggio ci ha salvato dalla guerra, ma ora non possiamo più tornare a casa nostra».
Ricominceranno dall'Italia. Hanno scelto la città di Busto Arsizio perché lì lavorano Silvana e Nadya, amiche da tanti anni. «Io vorrei subito trovare un lavoro - progetta Irina, con la fronte spellata dal sole della vacanza - e poi penseremo anche alla scuola. Valerii ha lasciato i quaderni nella sua cameretta. Non avremmo mai pensato di non poter rientrare».
Irina e Valerii ribaltano l'immagine di profughi a cui siamo abituati. Sono abbronzati e ben curati. Non hanno i volti della disperazione né portano i segni della povertà dell'Europa dell'Est. Ma la paura è la stessa di chi in queste ore sta attraversando il confine a piedi o in coda sull'auto al gelo. Perché non sanno se mai rivedranno chi hanno lasciato in Ucraina.
Lei ricaccia in gola lacrime e ansia. E con il tono di voce che si usa quando si vuole accendere l'attenzione dei bambini, parla di nuovi progetti in Italia, paese che sente amico.
Non appena arrivano a casa Don Lolo, il centro di accoglienza di Busto Arsizio (Varese), Don Giuseppe li ingloba, letteralmente. «Maxime! Maxime corri» urla. Maxime è arrivato da due giorni e ha la stessa età di Valerii. In mezzo minuto diventano amici e spariscono in cortile.
Irina incontra le sue inquiline. Non si presentano nemmeno, si abbracciano: «Vse dobre?» («Tutto bene»?). Una ragazzina risponde che sì, i suoi sono tutti vivi, un'altra che ha appena parlato con la famiglia ma non sa se in giornata riuscirà ancora ad avere notizie perché la linea va e viene.
Hanno lasciato fratelli, mariti e padri e sono partite con i bambini. «Mio cugino è a combattere con il fucile» racconta Giulia. «Dormono tutti in cantina, non si muovono da lì».
«Chi vuole scappare non può - racconta Valentyna, quasi senza espressione - La benzina non c'è più e, se non fai il pieno alla macchina, non arrivi fino al confine. Come fai?».
Giulia, Irena e Maria hanno guidato da Leopoli, a 70 chilometri dal confine con la Polonia. «Noi abbiamo lasciato l'Ucraina passando dalla Slovacchia. Siamo in Italia perché abbiamo una sorella che lavora qui». Assieme a loro ci sono Anna, di 4 anni, e Cocò, un cagnolino marrone che, è scontato dirlo, entro sera diventerà la mascotte della nuova banda di bambini ucraini ospiti al centro. Nei prossimi giorni si inseguirà un po' di serenità, o almeno di normalità, tenendo lontani i figli dalle notizie degli asili bombardati o dei parenti intrappolati nei rifugi sotterranei. Poi piano piano si imposterà tutto il resto: tamponi, vaccini e scuola. «Vogliamo anche capire come possiamo aiutare chi è rimasto in Ucraina. Non è facile stare qui senza fare nulla».
Mentre i centri di accoglienza del Nord Italia si riempiono, c'è chi sta per tornare in Ucraina. Viktor, 62 anni, autotrasportatore, tenterà il primo viaggio di consegna aiuti da Genova all'Ucraina, con destinazione Ternopil.
Non è stato
scelto casualmente dalla comunità ucraina: si cercava una persona che conoscesse bene le strade e che non corresse il rischio di essere arruolato, con la garanzia dunque di entrare, ma anche eventualmente di uscire dal Paese.
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