L'ostracismo verso gli italiani «untori» del coronavirus continua ad estendersi: non solo aumenta il numero dei Paesi che prendono misure per limitare l'ingresso dei nostri connazionali o quantomeno per controllarne le modalità, ma c'è anche chi pretende di bloccare le nostre merci, magari esigendo che presentino un apposito bollino che ne certifichi (assurdamente) l'impossibilità a trasmettere il contagio. Nei giorni scorsi aveva fatto rumore l'esplicito invito del presidente Trump ai cittadini americani a evitare di viaggiare verso l'Italia, che aveva avuto come ricaduta lo stop dei voli da e verso Milano delle compagnie aeree Usa American Airlines e Delta. Lo stop all'ingresso nel loro territorio degli italiani era stato imposto, tra gli altri, anche da Turchia, Israele, Arabia Saudita, Seychelles e Capo Verde, mentre Gran Bretagna e Irlanda impongono due settimane di autoisolamento a chi giunge dal Nord Italia e presenta sintomi anche lievi. Russia, Francia, Spagna e Grecia sconsigliano i viaggi in Italia ai loro cittadini. Ma i due Paesi che in queste ore stanno imponendo le restrizioni più gravi sono i due colossi del continente asiatico: la Cina e l'India. E le loro iniziative hanno suscitato la rabbiosa reazione del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che le ha bollate come inaccettabili.
Partiamo dalla Cina. Già due giorni fa era stato registrato nella provincia di Zhejiang il primo caso di «contagio di ritorno» dal nostro Paese, con il ricovero di una donna cinese rientrata dall'Italia e sbarcata all'aeroporto di Shanghai. Ieri ne sono stati denunciati altri sette: si tratta, secondo il quotidiano governativo cinese Global Times, di cittadini cinesi che lavoravano nello stesso ristorante di Bergamo, e che sono arrivati a Shanghai lo scorso 27 febbraio via Milano e Mosca, per poi essere messi in quarantena il giorno dopo nella provincia di Qingtia dove si erano diretti. In queste condizioni, non meraviglia che le due più importanti megalopoli cinesi Pechino e Shanghai abbiano disposto l'obbligo di quarantena della durata di 14 giorni per coloro che provengono da Paesi «gravemente contagiati» dall'epidemia di coronavirus come l'Italia, la Corea del Sud, l'Iran e il Giappone. Più nel dettaglio, a Pechino le case dove abitano i cittadini di questi quattro Paesi verranno sottoposte a isolamento per due settimane, mentre chi arriva nella capitale cinese senza avere un domicilio sarà tenuto a risiedere in alberghi appositamente designati. La municipalità di Shanghai, invece, non specifica i Paesi i cui cittadini sono destinatari di misure restrittive, limitandosi a definirli come quelli provenienti da aree con condizioni «relativamente gravi».
Quanto all'India, il giro di vite contro i viaggiatori italiani è stato deciso dopo che venerdì scorso due turisti provenienti dal Lodigiano sono risultati positivi al tampone per la ricerca del coronavirus eseguito presso l'ospedale di Jaipur, nello Stato nordoccidentale del Rajastan. Come misura immediata, tutti i 21 altri italiani della stessa comitiva (tredici uomini e otto donne) sono stati trasferiti a New Delhi e posti in isolamento in una struttura sanitaria militare: qui vengono tutti sottoposti ai necessari controlli, mentre l'ambasciata italiana sta provvedendo ad assisterli facendo arrivare materiale sanitario supplementare e anche generi alimentari. Allo stesso tempo, il governo indiano ha deciso il blocco dei visti per i cittadini italiani, sospendendo la validità anche di quelli già emessi e non ancora utilizzati. Eventuali eccezioni per motivi «comprovati e urgenti» potranno essere valutate contattando l'ambasciata indiana a Roma. In tema di restrizioni ai viaggiatori (italiani e non) in arrivo dall'Italia, già dallo scorso 26 febbraio il governo indiano aveva annunciato che avrebbero potuto esser messi in quarantena in seguito a possibili controlli ordinati dalle autorità locali: ed è proprio questo il caso dei 23 turisti lodigiani a Jaipur.
A queste limitazioni che riguardano la libertà di viaggiare da e verso l'Italia, vanno aggiunte misure già prese da alcuni Paesi che condizionano l'import di prodotti italiani al loro accompagnamento con un bollino che li certifichi come «virus free».
Contro questa pretesa definita dal ministro degli Esteri italiano «del tutto assurda» si è scagliato ieri Luigi Di Maio, che nel corso della presentazione del piano straordinario del governo per la promozione del made in Italy a fronte dell'epidemia di coronavirus ha affermato che si tratta non solo di una discriminazione, ma di un possibile tentativo di concorrenza sleale ai nostri danni.
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