La differenza di vedute tra la critica e il pubblico non è certo stata inventata da Sanremo 2019. Al pubblico tv piace Ultimo e lo televota in massa (48,8 per cento)? Alla giuria d'onore e alla giuria dei giornalisti, piace Mahmood, terzo al televoto (20,95 per cento). E vince Mahmood con grande scorno dei televotanti che giustamente si sono chiesti: a che scopo abbiamo partecipato, al prezzo minimo di 51 centesimi, se il risultato può essere capovolto in maniera radicale? Il successo porta successo: dopo una partenza lenta, ora Soldi, il brano di Mahmood si fa largo nei servizi in streaming come Spotify. Chissà, se non è un fuoco di paglia, forse il cerchio si chiuderà e grande pubblico ed esperti si troveranno a braccetto. Fatto che non toglie i dubbi sul senso del concorso sanremese.
La lontananza tra i gusti del pubblico e quello degli esperti è una costante in tutti i rami dell'espressione artistica e tra l'altro non sempre è un male. Anzi. L'arte non è democratica e quindi il successo di vendite non può essere un criterio valido per stabilire la qualità di un'opera. Naturalmente ci sono casi piuttosto divertenti in cui i critici, rimasti indietro, non sono in grado di capire i nuovi fenomeni. E non sono mai mancati critici ideologizzati che si rifiutano di prendere in considerazione chi non è fedele alla linea.
In campo musicale è sempre andata così. Il blues era diabolico. Il jazz era un inutile saltellare. Il rock'n'roll era rozzo e perverso. L'Heavy Metal incitava al suicidio e alla violenza. L'elettronica era roba da impasticcati e così via. Ci hanno rimesso le penne Elvis Presley, i Beatles, i Rolling Stones e gli epigoni italiani, i gruppi beat e gli urlatori. Mentre il critico si lamentava, il pubblico gradiva e dava vita al mercato dei 45 giri. All'inizio degli anni Sessanta, anche per merito di una Rai illuminata, il fenomeno aveva dimensioni che non si potevano ignorare. E anche i critici si adeguarono, scoprendo che il rock non era poi così malvagio, in tutti i sensi.
Molti movimenti artistici hanno preso nome da una sonora stroncatura. «Impressionista» aveva un valore negativo e nasceva dalla perfida penna di Louis Leroy. Oggi sono forse i pittori più amati in assoluto. Furono stroncati anche Picasso, Dalí, Klee, i cubisiti, i dadaisti, i surrealisti. In sostanza si può dire che solo i mediocri arrivano a fine carriera senza una stroncatura che si rivela poi un errore di giudizio.
Più simili al caso Sanremo sono gli esempi che si possono trarre dalla letteratura italiana. Dopo aver ricordato che Alessandro Manzoni fu variamente stroncato in varie epoche ma andarono a ruba le dispense a puntate dei Promessi sposi, ecco un aneddoto, però significativo, raccontato da Evaldo Violo, storico editore della Bur, durante un convegno su Giuseppe Berto. Nel 1975, Tuttolibri fece un'inchiesta nella quale si chiedeva ai lettori di indicare il libro più amato e il libro più importante del Novecento. Il referendum si svolse a partire da una lista bloccata e compilata dai critici letterari. Nessun libro di Giuseppe Berto era presente. I lettori però avevano la possibilità di indicare anche un titolo a piacimento. In questa graduatoria, compilata dunque dal pubblico, nella categoria libro più importante c'erano due romanzi di Berto: Il male oscuro (terzo posto dietro Un uomo di Oriana Fallaci e La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda) e Il cielo è rosso (decimo). Nella categoria libro più amato, Il male oscuro scavalcava La cognizione del dolore e si piazzava al secondo posto subito dopo Un uomo. E già che ci siamo, la Fallaci come narratrice non fu nemmeno presa in considerazione, soprattutto negli ultimi anni, dopo la feroce polemica seguita a La Rabbia e l'Orgoglio. Capita così che il più ambizioso romanzo storico del dopoguerra, Un cappello pieno di ciliege, passi del tutto inosservato alla critica mentre occupa i primi posti della classifica.
Sulla scrivania di tutte le redazioni, in questi giorni, sono arrivate le ristampe delle opere di Susanna Tamaro, campionessa di vendite mai amata dalla critica. Di fronte al clamoroso successo commerciale di Va' dove ti porta il cuore, la critica militante, con le dovute ma numerate eccezioni, sul conto dell'autrice Susanna Tamaro si è posta domande capitali. Roba di questa portata: è una lesbica? Davvero convive more uxorio con una donna? Cosa mangia, è vegana o vegetariana? Sarà mica una fascista? Ha letto Evola? È un'artista o una plagiatrice seriale? È cattolica, buddista o cosa? Comunque sia non è un po' strana, con quei capelli da maschio? Strana è strana, bisogna ammetterlo. Infatti pochissimi autori sono in possesso di una sintassi articolata ma così limpida da non richiedere mai un inciso di troppo o una punteggiatura ridondante. Segno che la Tamaro ha le idee molto chiare su cosa vuole dire e quale effetto vuole ottenere. Niente da fare. Alla critica non piacciono il tono sentenzioso e le metafore precotte.
I «benevoli» sono pronti ad ammettere, con paternalismo, che questi difetti siano dovuti a un fatto molto semplice. La Tamaro non si rivolge al lettore forte e colto ma alla massa di ignoranti che snobba la vera letteratura. Massa trascurabile secondo i critici. Massa calcolabile in quindici milioni di copie vendute.
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