Nel coro trasversale e quasi unanime, che chiede di abolire - o quantomeno rivedere - l'abuso d'ufficio, ci sono due voci stonate. Due voci che da mesi non fanno altro che urlare contro chi si azzardi anche solo a parlare di revisione del reato. Parliamo del M5S e di pezzi della magistratura. Due attori fusi in un unico canovaccio. Un asse naturale e consolidato che nelle ultime ore ha raggiunto uno dei massimi livelli della storia. Perché se è vero che i pentastellati hanno sempre avuto un rapporto privilegiato con le toghe (vedi anche gli innumerevoli casi di elezioni nelle file grilline di ex giudici), allo stesso tempo stupisce la virulenza con cui stanno alzando muri contro chi vuole provare a cambiare uno dei principali ostacoli all'operato dei sindaci e una delle principali cause di ingolfamento del lavoro delle procure. Come documentato da ilGiornale, infatti, nel 2017 in Italia sono stati avviati 6500 procedimenti per abuso d'ufficio. Ma solo 57 volte si è arrivati a una condanna definitiva. Un enorme dispendio di tempo e di soldi per chi deve difendersi. Senza considerare poi l'ormai famigerato «terrore della firma», che paralizza leggi, delibere e provvedimenti. Oltre al centrodestra e al Terzo Polo, anche i sindaci di sinistra, l'Anci e alcuni esponenti del Pd hanno evidenziato il problema e la necessità di porvi un rimedio. Tutti tranne il M5S. Che, nel campo della Commissione Giustizia, sta provando a schierare nomi da top player. Qualche esempio? Nino Di Matteo e Raffaele Cantone, i cui interventi sono stati formalizzati dall'ex procuratore nazionale antimafia, oggi deputato col M5S, Federico Cafiero de Raho. Nel novero degli «amici» grillini schierati contro la modifica del reato d'abuso d'ufficio c'è poi Roberto Scarpinato, anch'egli ex magistrato e oggi senatore pentastellato e c'è poi l'immarcescibile Piercamillo Davigo, il quale ha tuonato: «È previsto da una convenzione Onu, non si può toccare, sarebbe un illecito di diritto internazionale. E dopo il Qatargate subiremmo un danno d'immagine». Sulla stessa linea anche il direttore del Fatto quotidiano, Marco Travaglio e il presidente dell'Anm, Giuseppe Santalucia, che ha sentenziato: «Sarebbe un errore eliminare un reato che è già stato riscritto nel 2020 in modo da eliminare applicazioni generalizzate». I grillini sono quelli che portano in Parlamento la voce delle toghe (una volta era quella del popolo). E lo fanno nonostante non trovino sparring partner politici, dal momento che il Pd sulla questione non ha espresso una linea chiara e univoca, anzi, si sono levate voci dissonanti di peso come quella di Stefano Bonaccini. Tra le altre cose, poco tempo fa il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, rivolgendosi proprio ai dem ha spiegato: «Vi assicuro sul mio onore che da me c'è stata la processione di sindaci di vostri partiti che sono venuti a chiedere implorando di eliminare questo reato». Il M5s però non molla, annuncia una battaglia serrata e conta sull'apporto delle toghe per far sentire la sua voce.
L'asse politico-giustizialista alza la voce: l'accusa è quella di colpire la tutela della legalità, di attaccare la legislazione anti-corruzione e di alleggerire le maglie del contrasto al malaffare dei colletti bianchi. Ma la verità è quella suffragata dai dati. E quelli certi dicono che ci sono stati oltre 150 sindaci ingiustamente indagati o processati per abuso d'ufficio e poi assolti.
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