Se Giorgio Zanchini ha un torto, è quello di avere chiesto scusa. Primo: il termine ebreo non è un insulto. Secondo: un giornalista ha il dovere di chiedere al proprio ospite o all'intervistato se è ebreo o cristiano o ateo o musulmano, se ciò serve a fornire un elemento in più al lettore, o ascoltatore, che così può meglio chiarirsi le idee in merito all'argomento in questione. Nel caso si discuta di aborto, sarà o no importante sapere se chi parla è un cattolico Pro Vita? Nel caso si discuta di eutanasia, sarà importante o no sapere che chi parla è un militante radicale? Nel caso di discuta di diritti delle donne o di matrimoni combinati, sarà importante o no sapere che chi parla è un Imam? Compito del giornalista è porre qualsiasi domanda ritenga utile, fino a un millimetro prima che si configuri il reato di diffamazione. Sarà l'intervistato a scegliere se rispondere o meno. E la privacy esiste solo se la domanda è fuori contesto (spesso abbiamo sentito chiedere a attori e calciatori, senza alcun motivo, se sono buddisti o seguaci di Scientology). Ma tutto ciò deve valere sempre. Senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche. Per due anni i conduttori tv, parlando di Covid, hanno chiesto ai loro ospiti se erano vaccinati. Perché se si parla della questione israelo-palestinese non si può chiedere la religione di appartenenza? È come se si discutesse di bloccanti per la pubertà e di transizione di genere e non si potesse domandare a chi interviene se è un trans. O se si parlasse di metodi educativi e non si potesse sapere se chi parla ha figli o meno. Attenzione.
Se diventasse reato morale chiedere all'intervistato l'appartenenza a una certa parte, perderemmo un pezzo di giornalismo. E poi, se non possiamo domandare a qualcuno «Lei è ebreo?» (libertà di religione), perché possiamo chiedergli «Lei è antifascista?» (libertà di opinione politica)?
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