"L'avventurismo politico non paga. Di Maio può solo cercar posto al centro"

Il politologo è scettico sul destino di Insieme per il futuro: "Quelli che nascono così non sono partiti. E hanno una bassa sopravvivenza"

"L'avventurismo politico non paga. Di Maio può solo cercar posto al centro"

Per Alessandro Campi, ordinario di Scienza Politica a Perugia e direttore dell'Istituto di Politica, scissioni come quella di Di Maio sono frutto di «avventurismo politico», ma la storia insegna che queste scelte non pagano.

Professore, abbiamo appena visto l'ultima di una lunga serie di scissioni nei partiti, quella del M5s. È un vizio italiano?

«Un vizio non saprei, ma un fenomeno ricorrente. Ha toccato soprattutto la sinistra social-massimalista, ma non ha risparmiato la destra. Penso alla scissione di Democrazia nazionale dal Msi di Almirante nel 1977. L'unico partito che non ha conosciuto scissioni è stato la Dc: vero partito-paese, capace di trattenere all'interno feroci personalismi e differenze culturali profonde, con gli strumenti politici per eccellenza: compromesso e mediazione. Oggi, appena in un partito si crea un antagonismo, si pensa a cacciare l'oppositore o a farsi un gruppo proprio».

Qual è in genere il motore delle scissioni?

«Dipende. Alcune scissioni hanno avuto un significato storico enorme e serie motivazioni ideologiche, come per la nascita del Partito comunista d'Italia nel 1921 e del Psdi nel 1947. Quelle odierne obbediscono a ragioni più contingenti e prosaiche: ambizioni dei singoli, preoccupazioni di carriera, darsi un profilo da leader che non si ha, sostenere un governo in cambio di poltrone. Per lo più è avventurismo politico».

Di Maio che prospettive ha?

«L'unica cosa che può fare è cercare un posto nel calderone centrista che cerca di mettere insieme le molte anime in pena che vagano nel sistema politico. Si dirà che vale il 20%, si scoprirà che vale, se va bene, la metà. Ma è un problema che Di Maio continui ad essere ministro degli Esteri avendo lasciato il partito che lo ha designato in quel ruolo».

Da Rc a Iv, dalle rotture di Fini, Alfano o Toti, che sorte hanno avuto i nuovi partiti creatisi in queste occasioni?

«Non definirei partiti quelli che nascono da manovre di corridoio e lotte intestine. In gran parte sono gruppi parlamentari e sigle elettorali. E l'esperienza ci dice che il tasso di sopravvivenza degli scissionisti dopo le urne è bassissimo. Chi ricorda Possibile, fondato da Civati dopo la rottura col Pd di Renzi?».

La formazione di nuovi gruppi è un segno di vitalità o di debolezza della politica?

«In Italia nascono in continuazione sigle e simboli, inevitabilmente effimeri, ed è una patologia. Il segno di un disordine politico che non si governa. Quasi sempre sono iniziative personalistiche o di cordate che lottano per la sopravvivenza. In questo momento ci sono solo 5 partiti veri: Pd, Lega, Forza Italia, Fratelli d'Italia e quel che resta del M5S. Il resto è fuffa, movimentismo senza costrutto»

Da anni si insegue il maggioritario, ma per alcuni lo spirito italiano è più vicino al proporzionale. È così?

«Non esiste un sistema politico-elettorale a misura del carattere nazionale, ma buone o cattive architetture istituzionali. L'Italia bipolare e maggioritaria nata dopo Tangentopoli, quella di Prodi e Berlusconi, ha visto coalizioni non sempre omogenee, ma ha funzionato abbastanza bene. La legge elettorale perfetta non esiste: chi magnificava il maggioritario a doppio turno si è ricreduto dopo il voto in Francia.

Il problema dell'Italia è che non esistono forze espressioni di correnti e tradizioni culturali radicate nella storia e nella società. E senza partiti organizzati sul territorio non c'è legge elettorale che tenga, né spirito di militanza, senso di appartenenza e regole da rispettare. Ognuno gioca per sé».

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