Ci sono uomini che, con il passare degli anni, acquisiscono uno status particolare riservato solo ai grandi e diventano icone. Raoul Casadei, scomparso ieri all'età di ottantatré anni a Cesena, è una di questi. Appena si è sparsa la notizia della sua morte, il calore e la vicinanza di quella che Raoul chiamava in una sua canzone «la mia gente» non si è fatta attendere e tutti i romagnoli si sono uniti nel cordoglio per ricordare uno dei propri figli più celebri: «La mia gente che mi vuole bene/ la gente mia che mi sa capir/ la mia gente che mi aspetta ancora/ la gente mia ce l'ho qui nel cuor». Ma la celebrità del «re del liscio» va ben oltre i confini romagnoli e le sue canzoni sono un patrimonio condiviso da tutti gli italiani poiché è stato l'interprete di un'epoca. Ciao mare e Romagna mia sono diventate il simbolo dell'allegria, della spensieratezza, della gioia di vivere trasmesse dall'orchestra Casadei e dal sorriso di Raoul che con la sua parlata gioviale e l'accento romagnolo suscitava immediata simpatia.
Casadei è stato l'emblema della romagnolità e la sua canzone popolare, nel senso nobile del termine, ha descritto vizi e virtù non solo della Romagna ma di tutta Italia negli anni del boom economico coinciso con l'esplosione del turismo di massa e della riviera.
Romagnolità non significa solo essere nati in quel lembo di terra che va da Cattolica a Imola ma condividere un insieme di valori di cui Casadei è stato un geloso custode poiché, come amava dire, «noi siamo le vere radici, l'identità». È impossibile non ravvisare nelle sue canzoni l'identità romagnola che viene spesso confusa nel resto d'Italia con quella emiliana e, per quanto formalmente Emilia e Romagna facciano parte della stessa regione, sono in realtà due realtà distinte in primis da un punto di vista culturale. Non è solo la contrapposizione tra tigelle e piadina, tra lambrusco e sangiovese (a cui Raoul Casadei dedicò la canzone Romagna e sangiovese) ma l'orgoglio romagnolo di rivendicare una propria identità rappresentata dalla laboriosità figlia della civiltà contadina descritta da Giovanni Pascoli nelle sue poesie. Un'etica del lavoro che ha permesso di creare dal nulla una delle principali industrie turistiche del Paese e il mito della riviera, simbolo del divertimento ma anche dell'efficienza nata dallo spirito di sacrificio che viene insegnato fin da bambini (da «burdel» in dialetto) nelle famiglie romagnole i cui figli sono mandati d'estate a «fare la stagione» per guadagnare i primi soldi («i baioc»).
Un senso del lavoro unito alla genialità e alle intuizioni di cui l'ingegner Rosa e Lorenzo Muccioli, ricordati di recente nelle serie tv di Netflix che hanno fatto il giro del mondo, sono il simbolo. Guai però a lasciarsi ingannare dalla giovialità e dalla simpatia dei romagnoli perché nelle loro vene scorre il sangue del Passatore, il brigante che a metà dell'Ottocento generò per lunghi anni il terrore compiendo uno dei gesti più eclatanti quando con la sua banda rapinò tutti i presenti al teatro comunale di Forlimpopoli tra cui la famiglia di un altro celebre romagnolo, Pellegrino Artusi.
Non è un caso che in Romagna nacquero alcuni dei fenomeni politici più rivoluzionari del Novecento come il socialismo di Andrea Costa o il fascismo. D'altro canto, sarebbe bastato leggere i libri del faentino Alfredo Oriani per capire l'indole fumantina dei romagnoli, per non parlare delle gesta di Nicola Bombacci, fondatore del Partito comunista a Livorno con Gramsci e morto a piazzale Loreto.
Raoul Casadei è stato figlio di questa terra che ha dato i natali a editori visionari come Leo Longanesi, registi
impareggiabili come Federico Fellini, letterati sublimi come Renato Serra, Marino Moretti, Tonino Guerra ma anche eroi come Francesco Baracca che ora ha raggiunto in cielo nel grande pantheon della romagnolità. At salut, Raoul.
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