Enrico Letta pianta la bandierina Pd al sacrario di Marcinelle, eppure da premier fece abolire una norma che ancora oggi rende difficile, per i familiari di chi è morto sul lavoro all'estero, avere giustizia e risarcimenti. La tragedia dei 262 minatori morti l'8 agosto del 1956 nelle viscere della miniera belga di Bois du Cazier a 975 metri di profondità (136 dei quali italiani, tra cui 52 alpini) era stata risparmiata dai veleni elettorali, o quasi. Ad approfittarne è stato il cinico leader del Pd: «Sono a Marcinelle per onorare anche tutti gli altri caduti, in altre viscere, a partire da quelle del Mediterraneo». Frasi che hanno fatto infuriare Giorgia Meloni e tutto in centrodestra. Mescolare due vicende immigratorie così diverse crea solo confusione. E se Letta avesse davvero a cuore le sorti di chi emigra non avrebbe deciso da premier l'abolizione di un articolo - il 54 del Dpr n. 1124/1965 - innescando una giurisprudenza penale che ha via via indebolito il reato di «mancata denuncia dell'infortunio mortale di un lavoratore italiano all'estero». Uno degli ultimi casi, raccontati dal Giornale, è quello del nuorese Oreste Angioi, morto sul lavoro tra il 14 e il 15 marzo del 2010 nella città kazaka di Atyrau: i suoi familiari dal 2010 cercano giustizia, bussando (purtroppo invano) persino al Colle, che ha chiuso la porta alla vedova e ai tre orfani.
L'incidente di Marcinelle racconta le condizioni di lavoro pessime di allora. Un ascensore chiamato per un malinteso dall'italiano Antonio Ianetta - considerato a torto l'unico responsabile - tranciò un tubo per il petrolio e i cavi della corrente elettrica, scelleratamente troppo vicini. Estintori non ce n'erano. I soccorritori dopo due giorni di ricerche inciamparono in una scritta su un pezzo di legno (Fuggiamo verso la nuova galleria). Li trovarono a 975 metri di profondità. Tutti morti. Ancora oggi ci sono diciassette tombe senza nome. Si salvarono in 13: uno di loro, il partigiano abruzzese Silvio Di Luzio, è considerato un eroe in Belgio ma ha dovuto combattere con l'Inps (sic!) per avere indietro gli arretrati della pensione di guerra. «In Belgio eravamo trattati come schiavi», ricordò Di Liuzo in una delle ultime commemorazioni, vestito come allora con una tuta blu di tessuto povero, un fazzoletto rosso al collo e un casco annerito. I proprietari della miniera la fecero franca. Ai vecchi impianti, sebbene logori, arretrati e già provati, era richiesto uno sforzo produttivo senza precedenti. Per i belgi, come ha ricordato l'ex leader di Rifondazione Fausto Bertinotti «il carbone valeva più degli uomini».
D'altronde, bisognava saldare l'Europa dilaniata dalla guerra, l'Italia doveva riscaldare le case degli italiani che l'avrebbero ricostruita. L'esportazione di manodopera in Svizzera, Francia, Gran Bretagna e Belgio era una misura di contenimento della disoccupazione ideata dal governo di Alcide De Gasperi, che già il 31 marzo 1949 avvisava: «Imparate le lingue e partite, aiuterete l'Italia». Chi morì a Marcinelle era un «deportato economico», età massima 35 anni e (pena il rimpatrio e l'onta) «buono stato di salute», venduto in cambio di 200 chili di carbone al giorno. Furono 150mila - duemila a settimana - quelli attirati dal miraggio di alloggi e buone paghe e spediti sui treni bestiame alla volta di Namur, nel cuore dei bacini carboniferi del Paese, dopo un passaggio a Milano nell'ex caserma a Piazza Sant'Ambrogio». In 806 morirono bruciati, in migliaia furono vittima della silicosi. Venivano chiamati gueules noires (musi neri), o macaronì, vivevano nelle baracche di lamiera ereditate dai lager, senza elettricità e con i cessi all'aperto.
Negli anni Sessanta il ministero del Lavoro mandò un manipolo di funzionari a verificarne l'integrazione e il rispetto delle norme. Le stesse leggi che Letta ha stracciato. Non c'è peggior oltraggio alla memoria delle passerelle ipocrite.
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