A forza di agire per gradi, nel riformare il sistema di immigrazione e asilo, l'Ue ha perso la bussola. Quella fissata dal nuovo «Patto» che (non essendo in sé un atto normativo ma una scatola che ogni Paese è chiamato a riempire di contenuti) punta sì a perfezionare le procedure di accoglienza snellendo i tempi delle domande e ampliando per la prima volta la solidarietà effettiva tra i 27 Stati, ma non toglie ancora quei vincoli che l'Ue stessa si è data in materia di espulsioni nel corso degli ultimi due decenni. Buchi, lacci e lacciuoli che continuano a consegnare a giudici nazionali, in Italia quanto nel resto d'Europa, il placet di legittimità di una decisione in tema di protezione internazionale: se per esempio ci sia stata o meno una violazione del diritto europeo da parte di un governo, relativamente alla designazione dei Paesi «sicuri» di origine. Questa cambia da Stato a Stato. E siamo al paradosso che le esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate e torture all'ordine del giorno in Afghanistan permettano alla Germania di rimpatriare lì 28 afghani (è successo ad agosto), ma non all'Italia in Egitto.
In questo Far West, la maggior parte delle cancellerie Ue sta mettendo in campo provvedimenti nuovi per inasprire le politiche casalinghe di asilo, pur ponderate nell'ambito della cornice europea. Dalla Francia alla Germania, dalla Danimarca all'Olanda, si punta a migliorare il bilanciamento tra esigenze di sicurezza e rispetto dei diritti dei migranti. Ma come effettuare più espulsioni e più rapidamente? Modificando l'attuale sistema ingolfato un po' ovunque e ipotizzando «hub di ritorno», cioè posizionare fuori dai confini Ue chi si è vista respinta la domanda di asilo o di protezione in attesa dell'effettivo rimpatrio, si conviene a Bruxelles. Si punta ad accelerare ampliando la cooperazione con Paesi terzi, come fatto dall'Italia con Tunisia ed Egitto. Von der Leyen ha annunciato che discuterà con Senegal e Mali; la Spagna con Mauritania e Marocco; idem la Francia, pronta a spingersi fino a interpellare Iraq e Kazakistan.
Ma come spesso accade a Bruxelles si fa il passo più lungo della gamba, disegnando linee guida senza andare al sodo: mettere tutti d'accordo è difficilissimo. E allora si lima, si toglie, si ammorbidisce il linguaggio. E anche quando la linea è chiara, e sostanzialmente condivisa partendo dall'obiettivo della prevenzione delle partenze e prefigurando pure, come sostiene Von der Leyen, la possibilità di una missione navale europea nel Mediterraneo, i ricorsi in tribunale sull'asilo ingolfano le pratiche, perché il diritto Ue, rimasto lo stesso, è lì dietro l'angolo pronto a prevalere sulle decisioni dei governi, costretti ad agire spontaneamente e di fantasia. In una selva in cui potere hanno gli avvocati e le associazioni che seguono i migranti giunti illegalmente nel percorso sfidante lo Stato, per l'Italia è arrivato un dietrofront. I giudici, in attesa delle contromosse dell'esecutivo, hanno bocciato la cosiddetta «procedura accelerata» in Albania. Sarà probabilmente solo più lunga, sbrigata in Italia. Sovente lo Stato Ue è invece rallentato nelle espulsioni anche per mancanza di accordi con i Paesi di provenienza. Tanto che il Consiglio europeo ha chiesto a tutti un'azione risoluta a più i livelli per aumentare i «ritorni» (guai a chiamarle espulsioni), applicando di fatto politiche «di destra» come sta già facendo la Danimarca a guida socialdemocratica. Ora pure il premier neogollista in Francia vuole una nuova legge immigrazione per il 2025, con buona pace del centrista Macron: che a Bruxelles inneggia allo Stato di diritto e in patria dal 1° novembre blinderà di nuovo le frontiere per sei mesi. In Consiglio europeo si è parlato pure di costruire centri di detenzione per migranti criminali fuori dall'Ue. Ma se uno Stato come l'Italia prova a scardinare le lancette dell'orologio, pur rispettando al 100% i diritti dei migranti, tutto si complica. Si torna alla casella di partenza.
Ed Eurostat certifica: in Ue solo un extracomunitario su 4 rimpatriato dopo l'ordine di espulsione. Da inizio anno, su 200mila atti, solo 56mila quelli effettivamente compiuti sommando tutti i Paesi. E i risultati languono.
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