«Questa vicenda è un esempio illuminante della necessità di una reale separazione delle carriere», dice ieri l'avvocato Cataldo Intrieri. Eh sì: perché la vicenda di cui parla è quella del suo assistito Francesco Bellomo, giovane e brillante giudice del Consiglio di Stato, docente in affollati corsi per aspiranti magistrati, travolto nel 2017 dall'inchiesta della Procura della Repubblica di Piacenza. Una carriera distrutta da accuse infamanti, Bellomo era indicato come una specie di aguzzino in grado di plagiare le sue corsiste, imponendo loro regole di vita di ogni genere e stabilendo persino la lunghezza della gonna. Ieri Bellomo viene assolto dalla Corte d'appello di Bari, «il fatto non sussiste». Ma nel marzo dello scorso anno, senza aspettare l'esito dei processi, il Consiglio di Stato aveva confermato la sua cacciata dalla magistratura. A radiarlo era stato il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa: a firmare la sentenza, il vicepresidente Giuseppe Conte. Lo stesso che di lì a poco sarebbe diventato presidente del Consiglio.
L'inchiesta contro Bellomo aveva fatto scalpore, il codice dettato alle allieve era finito sulle prime pagine dei giornali. A complicare tutto, un dettaglio: la bravura di Bellomo. Tra i tanti corsi di formazione affrontati dalle migliaia di laureati ansiosi di entrare in magistratura, quelli di «Diritto e scienza», la società di Bellomo, avevano le maggiori percentuali di successo: chi passava per i suoi banchi, aveva ottime chance di riuscire a vestire la toga, essere cresciuti alla scuola di Bellomo era un vanto. Da un momento all'altro il marchio Bellomo diventò un marchio da nascondere, come se avere frequentato quei corsi significasse avere accettato chissà quali compromessi.
Poi però sono arrivati i processi, sparsi per le Procure delle diverse città dove Bellomo teneva i suoi corsi: Torino, Bergamo, Milano, Roma. Quasi ovunque l'accusa per il «decalogo» imposto alle allieve veniva tradotto nel reato di violenza privata o di stalking. E uno dopo l'altra - da ultimo a Torino, nel luglio 2023 - le indagini venivano archiviate; a Piacenza la Procura chiede tre anni di carcere e il tribunale assolve con formula piena. Restava in piedi Bari, dove per mantenere la competenza territoriale la Procura aveva contestato a Bellomo addirittura il reato di estorsione. Che sarebbe consistita nello spiegare a un'aspirante magistrata che fare la valletta in una trasmissione tv non era il modo migliore per arricchire il curriculum.
Accusa ardita. Eppure la Procura barese aveva trovato un giudice preliminare che ne aveva sposato le tesi e aveva arrestato Bellomo per estorsione, il codice di comportamento veniva etichettato come un «contratto di schiavitù sessuale». Il giudice di primo grado aveva derubricato l'accusa in violenza privata e aveva concesso la prescrizione, ma l'imputato non si è accontentato, ha fatto ricorso in appello e qui è arrivata la pietra definitiva: non c'è né estorsione né violenza privata. Non c'è reato. «È stato - dice Intrieri - un processo emblematico, con un'accusa artificiale di estorsione costruita in laboratorio mediante una ricerca a tappeto di denunce e possibili quanto insussistenti reati effettuata da un pm che non aveva neanche la competenza ad indagare».
(E le accuse delle ragazze?
Spiegazione di Bellomo: «Ci sono centinaia di dichiarazioni delle presunte perseguitate che dovrebbero finire su un romanzo della collana Harmony, non in un'aula di giustizia. Casomai la persecuzione amorosa l'ho subita io»).
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