Giovanni Toti si dimette, stritolato da un'indagine giudiziaria - allo stato nulla più di una congettura - che ha dispiegato le tradizionali e pervasive sonde inquisitorie (intercettazioni, carcerazione preventiva).
Con lui cade una giunta, eletta dai cittadini liguri. L'indignazione furiosa dei suoi alleati politici nei confronti della magistratura è comprensibile ma, per passare dalle invettive a un lucido disegno reattivo, sarebbe proficuo un esercizio di autoconsapevolezza.
Nell'ultimo mezzo secolo la classe politica ha determinato lo spostamento del potere nei confronti dell'ordine giudiziario con due diversi approcci, ispirato l'uno alla delega delle soluzioni di taluni problemi sociali, l'altro alla subalternità (nei confronti della magistratura) che di quella delega fu la conseguenza.
Dal violento scontro sociale degli anni Settanta (con deriva nell'eversione armata) alle esigenze di contrasto della criminalità organizzata (anni Ottanta e Novanta), fino alla crisi della Prima Repubblica (e relativo problema dei contributi dei partiti) i passi indietro della politica e le complementari «cessioni di sovranità» al segmento più acuminato del giudiziario (le procure) furono la costante.
Il diritto penale di stampo liberale cede il passo a leggi e a prassi giudiziarie inedite; «pentitismo», cause di non punibilità e sconti di pena, trattamento processuale e penitenziario - carcere duro o meno - differenziati non in rapporto alla gravità del fatto ascritto, bensì alla posizione soggettiva dell'imputato («pentito», «dissociato» oppure «irriducibile»): si trattasse di terrorismo o di criminalità organizzata, tali furono gli strumenti messi in campo. Arnesi, di stampo autoritario, poi riutilizzati dalla magistratura quando fu la volta di indagare sul finanziamento illecito dei partiti (1992).
Qui si consolida il disequilibrio dei rapporti tra potere politico e giudiziario. Con afflato masochista, il ceto parlamentare preordinò la riduzione delle sue prerogative costituzionali nei confronti della magistratura.
Tra il 1992 e il 1993 assistiamo a un duplice harakiri, ispirato dall'ondata giustizialista di quegli anni. In primo luogo, per deliberare amnistia e indulto viene introdotta una maggioranza qualificata (due terzi dei componenti di ciascuna Camera) che non solo rende difficile promulgare atti di clemenza collettiva ma, come effetto ultimo, accresce il (già smisurato) potere del pm: l'imputato, davanti alla prognosi infausta circa la possibilità di fruire di un'amnistia, viene sospinto verso il patteggiamento, per accedere al quale è necessario il consenso dell'accusa. In secondo luogo, con la rinuncia al (sacrosanto) scudo dell'immunità parlamentare - compiuta nel 1993 con la riforma dell'art. 68 della Costituzione - vengono definitivamente consegnate al potere giudiziario le decisioni sulla carriera dei parlamentari.
Il quadro ispira pessimismo, ma i numeri dell'attuale maggioranza di governo esigono che riprenda nelle sue mani le redini della politica giudiziaria.
Non solo l'ineludibile separazione delle carriere, bensì l'introduzione della discrezionalità dell'azione penale (con soppressione dell'obbligatorietà): come i paesi democraticamente evoluti insegnano, l'organo dell'accusa che esercita un potere discrezionale (chi perseguire, per quali reati, con quali tempistiche e modalità) a qualcuno deve renderne conto (elettori o ministro della giustizia). A grandi poteri, pari responsabilità.*Ordinario di Procedura penale nell'Università di Brescia
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