La memoria fa brutti scherzi. «Che cosa ci eravamo detti in quegli ultimi momenti io e Gigi?» La risposta di Gemma Calabresi, affidata al recente libro «La crepa e la luce», è disarmante: «È terribile, ma non me lo ricordo».
Le nove e un quarto del mattino del 17 maggio 1972. Cinquant'anni fa. Milano. Il commissario Luigi Calabresi esce di casa, in via Cherubini, zona Pagano, quartiere borghese e famiglie benestanti. È in ritardo, ma dopo due minuti torna indietro. Si cambia al volo la cravatta, da rosa a bianca, poi si rivolge alla moglie: «Come vado così?», quindi pronuncia l'ultima frase, quasi una profezia della fine: «Questo è il simbolo della mia purezza».
La risaluta e va incontro alla morte. La pistola di Ovidio Bompressi non gli lascia scampo: due colpi e il poliziotto cade sull'asfalto. La corsa disperata all'ospedale non serve. Luigi Calabresi muore a 34 anni, lasciando la giovane vedova, due figli e un terzo in arrivo. Sembra incredibile ed è inammissibile, ma è la cronaca: domani, 18 maggio 2022, la Francia potrebbe decidere sull'estradizione di Giorgio Pietrostefani, il mandante del delitto, in libertà vigilata da un anno circa dopo una lunga stagione di latitanza blindata. Insomma, dopo mezzo secolo e ancora un giorno potrebbe arrivare, ma il condizionale è d'obbligo, la parola fine per una storia che è andata avanti troppo a lungo e continua a vivere sui giornali, mentre ormai il suo posto è nei libri di storia.
Il delitto Calabresi, come hanno accertato i giudici milanesi, fu organizzato all'interno di Lotta Continua, anche se è evidente che mancano tuttora pezzi di verità. Le sentenze indicano due livelli: l'ideazione e l'esecuzione. La prima nasce ai piani più alti del movimento extraparlamentare: l'ordine di uccidere Calabresi arriva infatti dai leader, Adriano Sofri e appunto Giorgio Pietrostefani. Poi c'è la manovalanza che porta a termine il piano: Bompressi e Leonardo Marino, l'anello debole della catena cresciuto nel mito di Sofri, l'autista che, recuperato il complice, scappa imboccando via Rasori.
Quella mattina l'Italia scivola irrimediabilmente verso gli anni di Piombo: le Brigate rosse ci sono già, ma non hanno ancora azzardato imprese del genere; quello è il primo omicidio politico di una nuova spaventosa stagione che le Br, ma non solo loro, battezzeranno, forse per errore, con il sangue di due missini ammazzati a Padova nel 1974. Quel giorno si capisce che nel magma dell'ultrasinistra italiana il seme dell'odio ha dato i primi frutti. D'altra parte il delitto Calabresi è, per certi aspetti almeno, un omicidio corale, incastrato dentro una stagione avvelenata della storia del Paese: il 12 dicembre 1969 una bomba ammazza 17 persone in Piazza Fontana. Gli investigatori puntano sulla pista anarchica: Giuseppe Pinelli viene convocato in questura e ad interrogarlo è proprio Calabresi. La notte del 15 dicembre, con un fermo protratto illegalmente, Pinelli è ancora lì. Poi il ferroviere cade dalla finestra. Secondo la versione ufficiale, in quel momento Calabresi non c'è perché è uscito dalla stanza e sta portando i verbali al capo dell'ufficio politico Antonino Allegra. Tutti concordano e sposano la versione del suicidio, tutti meno uno, l'anarchico Lello Valitutti che da allora ripete un'altra versione.
Calabresi è innocente e verrà scagionato dalla magistratura, ma diventa il bersaglio di una violentissima campagna di insulti, minacce, attacchi furibondi, ricostruzioni fantasiose, appelli di intellettuali famosi saturi di rancore e disprezzo. Calabresi è solo, perché lo Stato non lo difende e anzi lo abbandona al suo destino: il 17 maggio 1972 il destino si compie. E comincia una saga giudiziaria senza precedenti nella vita del Paese. Prima 16 anni di buio, silenzio, omertà, anche se molti, troppi, sanno. Poi Marino, il cui cuore sanguina, si pente e va dai carabinieri: è la svolta, supportata da riscontri inattaccabili. Il 28 luglio 1988 i protagonisti di quell'eccidio finiscono in manette. Marino accusa, loro si proclamano innocenti. Sofri si dice pentito per quella campagna orrenda orchestrata dal suo giornale con toni parossistici, ma afferma anche che lui non commissionò quell'infamia. Di nuovo storici, accademici, giornalisti mettono in dubbio il lavoro della magistratura ambrosiana, di solito osannata ma questa volta criticata con toni aspri. L'altalena sconcertante delle sentenze, in un affastellarsi di condanne e assoluzioni, si chiude solo a Venezia, con tanto di legge ad hoc, in sede di revisione. Dopo venti passaggi. I quattro sono colpevoli. La pena è di 22 anni, 11 solo per Marino.
Il caso è chiuso ma anche no. Fra un verdetto e l'altro, Pietrostefani è scappato a Parigi, dove i terroristi italiani hanno sempre avuto una equivoca e ingiustificabile copertura politica. L'anno scorso il vento cambia: lo arrestano, poi va in libertà vigilata. Domani, forse, l'ultimo atto.
Gli altri tre hanno scontato la pena e sono liberi. L'enigmatico e tormentato Bompressi, autore di poesie che per qualcuno aprono squarci lirici su quella giornata di orrore, ha ricevuto anzi una grazia parziale per le sue precarie condizioni di salute.
Cinquant'anni dopo, il delitto Calabresi è un tornante che non si può saltare nel ricostruire l'Italia del dopoguerra. L'intossicazione dell'ideologia e il germe della lotta armata, sullo sfondo di quella doppia tragedia: Piazza Fontana e la caduta mortale di Pinelli. E poi la vergogna di una verità negata e strappata per decenni, in parte anche oggi. A redimere quel disastro resta il necrologio scelto per i funerali. Le ultime parole di Cristo: Padre, persona loro perché non sanno quello che fanno.
«L'arcivescovo di Milano Giovanni Colombo - scrive oggi Gemma Calabresi - disse che il mio necrologio era un fiore deposto sul sangue di Gigi e che non sarebbe mai appassito'. Oggi posso dire che aveva ragione perché, anno dopo anno, quelle parole sono fiorite dentro di me».
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