È l'incubo che tormenta ogni genitore

di Barbara Benedettelli

M i ero da poco trasferita a Milano e l'Idroscalo non lo avevo mai visto. Il mio primo figlio che oggi ha 23 anni allora ne aveva 7. Lo chiamavo canocchia, era così magro che gli si contavano le costole. Una domenica pomeriggio di luglio mi ha detto: «Mamma andiamo al mare di Milano?». Ci ho pensato un po', perché sapevo che ci sarebbe stata un sacco di gente. Ma poi mi sono detta: perché no? Ci siamo andati e ho vissuto una delle esperienze più traumatiche della mia vita. Credo che tutti i genitori almeno una notte abbiano trasformato in sogno le loro angosce di perdita. Quel giorno, appena ci si è aperto davanti il prato immenso dell'Idroscalo, color carne per la distesa umana, quella vocina interiore che non ascoltiamo mai mi aveva suggerito di andar via. Invece no. Gli ho stretto la mano e abbiamo cercato due metri di erba. Trovati! Lo spoglio, gli metto la crema, poi mi chino per prendere gli asciugamani, li stendo e comincia l'incubo. Quanto ci vuole? Pochi secondi? Un minuto? Quando mi sono alzata mio figlio, la mia canocchia, non c'era più. Quello che ho provato è difficile da raccontare. Nella mente rivivo quei minuti interminabili alla moviola, ma trovare le parole giuste è impossibile. Forse quella che più si avvicina è disperazione.

Ho fatto un giro intorno a me stessa con gli occhi come radar per cogliere anche un solo centimetro della sua pelle. Niente. Il mio cuore è esploso. Tenendolo in mano ho urlato: «Federicooo». In quei momenti in cui tutto sembra caderti addosso, c'è una forza che lavora per te. Io ero come trasportata: «È alto così, magro. Ha la pelle bianca, il costume blu. I denti separati e quando ride si vedono tutti tutti. Lo avete visto?». Decine e decine di persone, ma no. Non lo ha visto nessuno. Faccio slalom tra la gente e nessuno si è unito a me in quella ricerca. Ho guardato il cielo, poi sono caduta in ginocchio. Ma non volevo mollare. Quanto è passato un secolo o 10 minuti? Provo a uscire dal carnaio per cercarlo tra gli alberi. Niente. Da lì guardo la riva, l'acqua. Cominciano a scendere le lacrime e ho una paura tremenda. Guardo su, verso il bar e vedo una canocchietta che si sbraccia da un'inferriata. Sono lontana, ma vedo il suo sorriso grande. Corro come non ho mai fatto prima. Lo prendo, lo stringo forte. Piango. «Mamma ti ho fatto uno scherzo». Sarei potuta morire di crepacuore. Se ti portavano via? Se non ti trovavo più? Per lui era uno scherzo, per me il peggior incubo. Ma la speranza di ritrovarlo non se n'è andata mai. Sono stata fortunata, non tutti lo sono.

Ci sono genitori che quei pezzi d'anima li cercano ancora dopo anni. Che riescono a credere ogni giorno che sia stato solo uno di quei sogni da cui ci si sveglia angosciati. Ce ne sono altri che invece muoiono dentro, perché qualche mostro li ha portati via per sempre.

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