«Era bellissimo». La prima cosa che Achille Serra, già questore di Milano e poi deputato, dice quando gli si chiede del suo amico Luigi Calabresi non riporta ai giorni terribili della persecuzione e dell'omicidio, ma alla prima impressione, al primo incontro negli uffici al quarto piano della questura di via Fatebenefratelli. Primavera del '69, Serra appena arrivato da Roma, Calabresi anche lui romano, di poco più anziano: alto, moro, la simpatia contagiosa. Tra i due giovani romani trapiantati al nord sembrava l'inizio di una amicizia di quelle destinate a durare per decenni. E che invece si spezza nel sangue, tre colpi successivi - la strage in banca, la morte del ferroviere Pinelli, l'assassinio di Calabresi - che il mezzo secolo di distanza non ha finito di attutire.
Che tipo era Luigi Calabresi?
«Un poliziotto senza pistola. Non è un modo di dire, girava davvero disarmato, e questo riassumeva il suo modo di rapportarsi con chi gli stava davanti. La prima dimostrazione la ebbi poco dopo essere arrivato, inviato come da prassi a farmi per qualche tempo le ossa all'ufficio politico. Manifestazione sotto il consolato statunitense, erano arrivati con le peggiori intenzioni, eravamo nel pieno della guerra in Vietnam, la tensione era alta. Con qualcun altro al posto di Calabresi a dirigere la piazza chissà come sarebbe finita. Invece anche quella volta lui dimostrò che con il dialogo si potevano evitare molti guai. Questo insegnamento di Calabresi ho sempre cercato di metterlo in pratica».
Poi arrivarono la strage alla Banca dell'Agricoltura e tre giorni dopo la morte di Pinelli, che precipita dalla finestra dell'ufficio politico della Questura. E paradossalmente Calabresi, questo uomo del dialogo, venne dipinto come un assassino senza scrupoli. Fino a venire ucciso.
«Lo uccisero due anni e mezzo dopo, ma la verità è che il mio amico Calabresi venne assassinato giorno per giorno, in modo implacabile. Tutti i giorni con le scritte sui muri, nelle lettere, nei documenti degli intellettuali, nelle manifestazioni, lo slogan era sempre lo stesso: Calabresi assassino. Per due anni Luigi venne ucciso ogni giorno. Io credo che la gente non si immagini cosa voglia dire per un essere umano venire sottoposto a un trattamento del genere, a un martellamento quotidiano, incessante, ingiusto. Tanto che io un giorno gli dissi: ma scusa, Luigi, tu hai moglie e figli, perché non te ne vai, perché non chiedi di essere trasferito da Milano? E lui mi rispose: Ma tu te ne andresti? Perché me ne devo andare? Sono innocente, assolutamente innocente, non ho fatto niente di male. E io ebbi soltanto la forza di dirgli: hai perfettamente ragione».
Come è possibile che lo Stato abbia assistito senza reagire, senza proteggerlo in alcun modo, al linciaggio quotidiano di un suo servitore? Per i sicari di Lotta Continua ammazzarlo fu un gioco da ragazzi. Era solo, senza scorta.
«La prima responsabilità secondo me fu del governo, e fu una responsabilità grave. La verità è che Calabresi venne lasciato solo. Avrebbero dovuto trasferirlo immediatamente, appena cominciò la campagna di stampa contro di lui. Lo avrebbero dovuto trasferire per forza, anche contro la sua volontà. Si sapeva che avrebbe fatto una brutta fine, lo sapeva chiunque e purtroppo lo sapeva anche lui. Se il ministero degli Interni lo avesse trasferito dall'altra parte del paese probabilmente gli avrebbe salvato la vita. Invece venne lasciato qui, a sopportare ogni giorno, da solo, il peso di una campagna di odio. Lo chiamavano Commissario Finestra, circolavano fotomontaggi con Calabresi con le mani sporche di sangue. Una infamia senza fine».
Contro di lui non c'era solo la rabbia degli estremisti. Nei salotti intellettuali della Milano progressista circolavano battute orrende.
«È l'aspetto che oggi appare più assurdo. Ci furono documenti con settecento, ottocento firme di intellettuali importanti, c'erano personalità di primissimo piano che dissero delle cose incredibili. Alcuni di questi signori negli ultimi tempi se le sono rimangiate e hanno chiesto scusa. Ma conta poco. Conta che ci fu una condanna generale verso una persona e un padre di famiglia eccezionale e con una moglie splendida. Quando fu ucciso, il questore Allitto volle che io lo accompagnassi su dalla moglie. Allitto era un uomo durissimo, ma ricordo che sulle scale piangeva come un bambino. Quando arrivammo su da Gemma, lei senza lasciarsi andare a crisi isteriche disse solo: Me lo immaginavo. Una grande donna che era la moglie di un grande uomo».
L'uccisione di Calabresi ha rischiato a lungo di restare senza colpevoli.
Cosa pensò quando si seppe che era stata Lotta Continua?«Non mi stupì per niente. Mi ricordavo il titolo del loro giornale dopo l'uccisione, Giustizia è fatta. Bastava quello per capire con quanta cattiveria era stata pensata e preparata la morte di Calabresi».
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