Inverno. Sta arrivando. È arrivato Al di là delle mitologie che lo precedono, delle paure che lo ammantano, delle scomodità intrinseche che reca in sé, l'inverno è un periodo bellissimo, perché fa far pace l'uomo con la più antica delle sue invenzioni: il coprirsi. D'estate il massimo dei sollievi e dei piaceri è liberarsi dei vestiti. Riscoprire la pelle, rimetterla al contatto con l'aria. Farsi accarezzare dagli elementi naturali, dall'acqua, dal sale, dal vento. Sentirsi un po' inselvatichiti, andare a piedi nudi e intuire che dentro di noi alloggia ancora - e spesso - un primitivo, un selvaggio. Poi la stagione immancabilmente muta, la pelle sembra quasi non chiedere più di essere esposta, si ricompatta al resto del corpo; è di nuovo un «fuori» che si rintana e cerca di sfruttare l'accumulo estivo per rilasciare, pian piano, tutte quelle sensazioni di benessere che ci aveva fatto provare in quei brevissimi mesi estivi. La pelle, d'inverno, è la nostra memoria luminosa.
Eppure, quando torna il momento di coprirsi, nessuno si lamenta veramente. Diventa quasi un piacere sentire nuovamente una camicia sul dorso o una gonna sulle gambe. Vedere che i piedi godono delle calze inventate appositamente per loro, che il collo ci ringrazia per quelle calde sciarpe che lo avvolgono e per taluni - inizia anche l'era del cappello, quello strano indumento che attraversa la storia dell'uomo a zig-zag, andando, tornando, nascondendosi e poi riapparendo.
L'inverno riproduce da secoli il rito del vestirsi. Che si trattasse di calzamaglia, di corazza, di saio o di vétements da damine, c'è sempre stato un tempo da dedicare a questo momento, un tempo immensamente più dilatato dello svestirsi che, solitamente, ha le tempistiche di un Fregoli e le caratteristiche dell'acqua di fiume quando intravede il mare: tutto vola via d'urgenza per dare spazio al contatto della pelle con la natura. Viceversa coprirsi è un rito lungo, una meditazione alta, un modo di guardarsi dentro mentre si allestisce il «fuori». Dicono che - così come in punto di morte si riveda interamente la propria vita - nell'atto del vestirsi, invece, si pensi a ciò che ci attende, alle situazioni che a breve si avvereranno e ce le immaginiamo in quei panni scelti con perizia, come un attore si osserva nello specchio prima di entrare in scena.
Alla fine «vestirsi» ci insegna ad andare d'accordo con noi stessi. Lo specchio diventa un fedele aiutante al quale non chiedere nulla perché in realtà è un mutuo scambio quello che si instaura tra noi e lui mentre, osservandoci, cerchiamo conferme. Che ci si annodi una cravatta, che si controlli una scarpa che ben si accosti al resto della «armatura», in ogni modo siamo «nel momento», in quella sospensione zen in cui - come rarissime volte accade - non c'è un prima e il dopo si affaccia, prima di accadere, con confusa soavità.
L'inverno dunque non è solo l'opposto dell'estate, non è solo coprirsi dal
freddo e dalle intemperie; l'inverno è un antico maestro orientale che si ripresenta ogni anno per valutare se siamo cresciuti e abbiamo imparato. Per ricordarci, ad ogni ritorno, che la nudità esiste in quanto la vestiamo.
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