«Perché Calenda sì e noi no?». È questo, in sintesi, il ragionamento (assai concreto, perché in ballo ci sono i posti in Parlamento) con cui ieri il dinamico duo rosso-verde Fratoianni-Bonelli ha provato a alzare il prezzo dell'alleanza con il centrosinistra. Mandando nel panico il Pd, con Enrico Letta costretto, come Penelope, a ritessere all'infinito la tela di una coalizione che ora si sfalda a destra, ora a sinistra.
L'incontro con cui il segretario dem voleva sancire ieri pomeriggio la chiusura delle trattative e l'inizio, finalmente, della campagna elettorale, viene sdegnosamente annullato. «Registriamo un profondo disagio nel Paese», affermano i due in un solenne comunicato congiunto. Disagio per il caldo, la guerra, la crisi economica? Macché: per il «patto elettorale» sottoscritto dal Pd con Carlo Calenda, che turba le coscienze del mondo e «in particolare nell'elettorato di centrosinistra». Le motivazioni addotte per minacciare la rottura sono nobilmente ideologiche: l'ecologismo no-tutto («Non vogliamo rigassificatori e termovalorizzatori», meglio l'immondizia per strada e il grasso di foca per riscaldarsi), il «pacifismo» filo-Putin («Se devo accettare di mandare armi all'Ucraina, arrivederci», dice Fratoianni).
Il tutto corredato dalla velata minaccia di mollare Letta per allearsi con i Cinque Stelle, prontamente rilanciata da Giuseppe Conte, che non vede l'ora di mostrarsi «attrattivo» per qualcuno, chiunque sia.
Al Nazareno il messaggio viene subito decrittato: «Vogliono un po' di posti in più, del resto ce lo aspettavamo dopo l'intesa con Calenda, cui in effetti abbiamo concesso molto». Il prosaico sospetto viene confermato da una «stima» di Youtrend, uscita con singolare tempismo subito dopo le minacce di rottura rosso-verdi, che quantifica in «quattordici collegi» la perdita del centrosinistra in caso di mancato accordo con i «cocomeri» radical. «Noi pesiamo quanto Azione, serve un riequilibrio», proclamano Fratoianni e Bonelli. Ergo, vogliamo altrettanti posti: 18-20 secondo le stime.
«Vorrà dire che gli offriremo una decina di collegi in bilico, in cui potremmo giocarcela: se riescono a farli scattare buon per loro, se no se la vedranno sul proporzionale», spiega un dirigente Pd. Tanto, assicurano i dem, «la minaccia di andare con Conte è una pistola scarica: quello non c'ha neanche gli occhi per piangere, con tutti i posti che deve e non può assicurare ai suoi».
Ovviamente, Fratoianni e Bonelli chiedono di condire il possibile accordo con un «documento politico», una sorta di «accordo parallelo», dicono, che possibilmente dica l'esatto contrario di quello che dice l'accordo programmatico super-draghiano sottoscritto con Calenda. Ossia: no a rigassificatori e termovalorizzatori, no all'Ucraina, no all'agenda Draghi, no alla Nato etc. Ma nel Pd sono convinti che, in cambio di un po' di eletti, ci si accontenterà di firmare un documento più vago possibile su salario minimo, «agenda sociale» e una spruzzata di diritti Lgbt e transizione ecologica.
Resta aperto anche il fronte con Luigi Di Maio, incontrato ieri nel tardo pomeriggio da Enrico Letta insieme al suo nume tutelare Bruno Tabacci. Incontro «interlocutorio», dicono alla fine. In realtà, il ministro degli Esteri, da pragmatico aspirante neo-democristiano, si accontenterebbe del posto nel proporzionale offertogli (nonostante le proteste del Pd di Bibbiano). Tabacci, però, vuole garanzie anche per sé. Mal di pancia anche in casa Leu: Roberto Speranza (che ha prudentemente fatto confluire il suo partitino nelle liste Pd, per non doversi misurare sul proporzionale) puntava ad ottenere almeno sei eletti: se medesimo oltre al capogruppo Fornaro, Cecilia Guerra, il bersaniano Stumpo, Scotto e Errani.
Ma la stima, alla luce dell'intesa con Calenda, andrà rivista con ogni probabilità al ribasso. Anche perché i più fervidi alleati di Leu e Fratoianni nel Pd (la sinistra di Orlando e Provenzano) non vuol correre il rischio di versare il proprio sangue per assicurare posti ad altri.
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