L'Iran vota il cambiamento ma la democrazia è lontana

L'opinione pubblica internazionale si esalta per la vittoria dei riformisti. Inutile illudersi: il potere è sempre in mano ai radicali

L'Iran vota il cambiamento ma la democrazia  è lontana

C'è qualcosa di un po' patetico nella determinazione dell'opinione pubblica internazionale a dimostrare che le elezioni iraniane sono un grande segno di democratizzazione, che da ora in avanti vedremo procedere verso l'apertura all'Occidente un Paese dominato dalla shariah condita di Khomeinismo, la nazione con un record di condanne a morte secondo solo alla Cina, una delle prime nel reprimere le idee non conformi e le donne e che solo qualche giorno fa ha offerto 7mila dollari di regalo a ogni famiglia di terrorista palestinese, con una passione imperialista che l'ha portata a dominare quattri capitali.

I dati delle elezioni finora disponibili sono una testimonianza di quanto gli iraniani, grande popolo, siano stufi di un regime oppressivo e che li ha impoveriti, che abbiano voluto dare forza al presidente Rouhani che ha aperto una finestra verso la modernità: la lista dei candidati riformisti e moderati nelle elezioni parlamentari ha ottenuto i trenta seggi della circoscrizione di Teheran, la capitale. È stata una vittoria importante: quasi due terzi dei voti scrutinati sono andati a Rouhani, facendo ottenere alla sua coalizione elettorale detta «lista della Speranza» tutti e trenta i posti disponibili. Il capo della coalizione riformista Mohammed Reza Aref ha ottenuto il primo posto con più di un milione di voti. Il leader della lista conservatrice Gholam Ali Hadad Adel, ex presidente del parlamento è arrivato 31esimo. Anche la potente Assemblea degli Esperti, che conta 88 membri e resta in carica otto anni e che dovrà eleggere il successore del 78enne Ali Khamenei, darà la maggioranza al Presidente. La prossima «Guida suprema» potrebbe così essere Rafsanjani, il potentissimo ambiguo amico (oggi) di Rouhani. Ora la domanda, mentre si considera con soddisfazione ogni traccia di innovazione, fra cui l'ammissione di 13 donne nel parlamento in cui 167 deputati moderati e riformisti eletti potranno governare, è se questo condurrà a un Iran meno millenarista, che smetta di puntare, come oggi, all'avvento di una dittatura islamica nel mondo musulmano; che non si qualifichi per la sua incessante violazione dei più basilari diritti umani e per quella continua e sempre più armata promessa di «morte a Israele» e «morte all'America» ripetuta anche pochi giorni nel 36° anniversario della rivoluzione. Che la gente desideri cambiare strada, non c'è dubbio, ha votato per Rouhani per questo. Accadde anche nel 2009, e finì con una repressione sanguinosa.

Tutti gli eletti sono parte di liste scremate da migliaia di candidati che non rispondevano ai criteri di Khamenei, persino il nipote del grande Khomeini è stato ritenuto «non fedele ai valori della rivoluzione». In secondo luogo, il vero corpo che detta la politica iraniana è la Guardia Islamica della Rivoluzione che non accetterà da Rouhani mai nulla che ne metta in dubbio il potere che oggi le consente di controllare Teheran, Beirut, Bagdad, Sana'a, Damasco e di proteggere gli Hezbollah, Hamas e gli altri gruppi terroristici.

Rouhani potrà fare molte operazioni di politica diplomatica e di immagine, ma alla fine chi decide è la Guida Suprema. Rouhani si è dichiarato entusiasta del popolo iraniano per la sua partecipazione alle elezioni. Ma le elezioni nel suo mondo non significano democrazia.

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