L'idea che si ha da manuale di un partito di opposizione, è quella di una forza agguerrita e compatta. Ma non è il caso di questo Parlamento. Da 15 mesi, infatti, è fermo sul tavolo di Maurizio Gasparri, presidente della Giunta per le elezioni del Senato di Forza Italia, il «caso» di Michele Boccardi, candidato nelle liste forziste, che a causa di un errore marchiano nella trascrizione del numero dei voti nei verbali di elezione sommato ad un'interpretazione sbagliata della legge elettorale (un unicum su tutto il territorio nazionale) ad opera di un giudice della Corte di Appello di Bari, ha dovuto cedere il suo seggio a Carmela Minuto, anch'essa eletta nelle liste azzurre ma in odore di Lega. Che Boccardi sia dalla parte della ragione è talmente palese che, se la giunta gli desse torto, automaticamente 37 parlamentari, tra Camera e Senato, dovrebbero lasciare il loro posto ad altri, perché si imporrebbe il rito barese su quello vigente su tutto il territorio nazionale. Invece, la questione è ferma lì per l'inerzia del presidente Gasparri, l'ostruzionismo del relatore, il leghista Pillon, e le faide interne al centrodestra, visto che dalla parte della Minuto si è schierato Luigi Vitali, passato nelle file di Giovanni Toti e presidente della Commissione vitalizi di Palazzo Madama (il nome è un programma), il quale, a quanto si dice, da mesi minaccia ai quattro venti: «Boccardi non sarà mai senatore. Se anche la giunta desse il via libera, lo farò fuori in aula con i voti di grillini e leghisti». Risultato? La situazione marcisce e per la prima volta nella Storia della Repubblica al Senato sta per essere recapitata una denuncia per «omissione di atti d'ufficio». Commento di Ignazio La Russa, stratega della Meloni: «Forza Italia, per ora, dà solo l'idea di un esercito in rotta, i cui soldati sono l'uno contro l'altro armato, che non sa quale sia la linea del Piave e nel quale si ignora quali generali comandino».
Ancora. La forza di un partito di opposizione, secondo manuale, è quella di rendersi subito conto di quale sia la prospettiva politica, pronto ad adeguare ad essa la propria strategia. Nel Pd, buona parte del gruppo dirigente, è ancora convinto che si vada ad elezioni a settembre. Lo sono, soprattutto, i grandi frequentatori del Quirinale, da Franceschini a Delrio: il sogno è mettere fine a questo Parlamento, per inaugurarne subito dopo un altro, che viva su un rapporto tra un Pd, completamente «derenzizzato», e i grillini, con Fico o Di Battista al posto di un Di Maio giubilato. Un gioco, che, naturalmente, è assecondato, dall'ala movimentista dei 5stelle, tant'è che ieri Nicola Morra dopo l'arresto di Arata, l'imprenditore che ha messo nei guai l'ex sottosegretario Siri, non ha trovato di meglio che proporre la convocazione di Salvini in commissione anti-mafia: un ulteriore tentativo di spingere il vicepremier del Carroccio alla rottura. Il sogno di questi mondi, appunto, è quello di una campagna elettorale in pieno agosto con il leader leghista, da una parte messo in croce sui mercati da quell'establishment che nell'iconografia salviniana assume le sembianze del finanziere George Soros; dall'altra perseguitato dalle toghe rosse che qualche giorno fa, per bocca del segretario della corrente Area, Maria Cristina Ornano, hanno messo in piazza il loro programma politico: «La Lega, partito di matrice leaderistica, declina la sua offerta politica in chiave nazionalista, sovranista, populista, razzista e xenofoba». Un bel disegno non c'è che dire, che ricorda altri piani messi in atto in passato, ma che spinge Salvini e Di Maio a serrare i ranghi non fosse altro per necessità, visto che nessuno dei due pensa di avere amici al Quirinale, nel Pd o nella sinistra grillina. Nel Pd, però, c'è chi insiste nel copione di sempre e punta a rompere il patto tra i due vicepremier. «Io da nutrizionista osserva Delrio so bene che Salvini sta con Di Maio perché è il cibo che predilige: lo mangia, lo digerisce e lo espelle. E lo espellerà in tempi brevi».
È evidente che opposizioni divise al loro interno, o schiave di schemi datati, finiscono per sorreggere l'attuale quadro politico: non sono capaci di metterlo a repentaglio, né di offrire alternative. Un passo avanti lo ha fatto Berlusconi. Ha capito che non ci saranno crisi politiche o elezioni: «almeno in tempi brevi, cioè entro l'anno». Per cui ha messo in piedi un tentativo di rinnovamento, per compattare ciò che resta di Forza Italia e magari allargarla. Per farlo deve rendere le strutture del partito contendibili, per cui si andrà verso elezioni dei coordinatori dai livelli locali a quello nazionale. E si arriverà ad un congresso entro l'anno. Tutto sarà deciso in un consiglio nazionale il 25 giugno, prima dell'appuntamento che Toti ha dato il 6 luglio a tutti i dissidenti di Forza Italia: l'obiettivo è proprio quello di depotenziarlo. Solo che la riorganizzazione, dovrebbe essere accompagnata anche da un chiarimento della linea politica, partendo dal presupposto che il Matteo del Carroccio persegue uno schema che non è più vincolato solo al centrodestra. «Salvini è l'intuizione del responsabile organizzativo di Forza Italia, Gregorio Fontana punta a mettere in piedi un'alleanza 2.0 con l'ala governativa dei grillini. Vuole trasformare Di Maio nel suo alleato strutturale, quasi un patto generazionale. Non pensa alla Meloni, né a noi, come neppure a Giovanni (Toti, ndr), ma a Giuseppe (Conte, ndr). E noi dovremmo avere il coraggio di denunciare che Salvini non pensa più al centrodestra, proprio per riportarlo nel centrodestra». «Lui ti vuole solo se gli servi» spiega Andrea Cangini: «Mi raccontano che quando chiedeva a Berlusconi di fare il governo gialloverde, lo faceva in viva voce, con i grillini che gli ridacchiavano accanto. Altroché permesso! Solo che da noi tutto è fermo». «Salvini spiega Stefano Mugnai, coordinatore toscano lo convinci a un'alleanza con noi solo con i numeri, non con le pacche sulle spalle». Appunto, una riorganizzazione, magari una rottamazione, vanno benissimo per rilanciare un partito, ma servono a poco senza una strategia politica chiara, che porti consenso.
Un discorso che vale pure per il Pd, che, invece di sognare scorciatoie giudiziarie per far fuori gli avversari, ipotesi d'altri tempi visto ciò che succede oggi nel Csm, dovrebbe guardare alla sinistra vincente in Europa, magari a quella danese o a quella spagnola che accettano di affrontare anche il tema scabroso dell'immigrazione in termini realistici.
E se proprio non vuole farlo, dovrebbe individuare un soggetto che accetti quelle sfide come alleato. Altrimenti Zingaretti continuerà a guidare un partito a vocazione minoritaria e afono. «Nella campagna elettorale Nicola ha detto anche due-tre cose giuste ironizza Maria Elena Boschi ma nessuno se ne è accorto».
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