Non aveva voluto una scorta per non mettere a rischio altri uomini, perché, in cuor suo, sapeva che qualcosa, prima o poi, gli sarebbe accaduto. E alla fine è morto da solo, scappando in mezzo a delle sterpaglie che paradossalmente per lui rappresentavano la vita. Esattamente 30 anni fa, era il 21 settembre del 1990, veniva ucciso da un commando mafioso il giudice Rosario Livatino, originario di Canicattì (Agrigento), 38 anni, conosciuto da tutti, dopo la morte, come «il giudice ragazzino», così come ribattezzò l'allora capo dello Stato, Francesco Cossiga, i giovani magistrati che venivano mandati in terre di mafia. E la mafia, la Stidda (un gruppo di fuoriusciti di Cosa Nostra) con l'eclatante uccisione di Livatino voleva dare un segnale forte al capo dei capi, Totò Riina, che, pur sapendo che qualcosa nell'aria stava avvenendo, tacendo permise che quel delitto, alla fine, andasse in porto.
Livatino, che dai boss di Cosa Nostra veniva definito uno «scimunito», un «santocchio», un bigotto, per quel suo attaccamento alla fede, non si occupava, però, soltanto di piccole questioni di paese: il magistrato canicattinese che indagava anche su appalti e massoneria aveva incontrato Giovanni Falcone a Palermo con cui stava collaborando. Dalle agende personali di Livatino emerge, infatti, il 10 luglio del 1986, un «appuntamento con il giudice Falcone». «Il magistrato di Canicattì», spiega a il Giornale monsignor Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro e Postulatore della Causa di Beatificazione di Rosario Livatino, «prima di morire aveva anche collaborato ad una relazione redatta dai magistrati d'appello delle quattro corti siciliane, che diverrà la base del lavoro di Giovanni Falcone in qualità di Direttore affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia». Ecco il perché di quell'incontro, da molti descritto come «segreto», avvenuto cinque mesi dopo l'apertura del primo maxiprocesso a Cosa Nostra. Le numerose agendine del giudice, dove appuntava tutto ciò che faceva «Sub Tutela Dei», nelle mani di Dio, ci consegnano l'immagine di un uomo che divideva le sue giornate tra il tantissimo lavoro, la famiglia (viveva con i genitori), le visite ai parenti e numerosi momenti di preghiera in chiesa, dove teneva anche corsi alle giovani coppie. Emerge un attaccamento particolare alla madre, un interesse per il calcio (nel giugno del 1978 appunta di esser andato a casa di amici per seguire la partita dei mondiali Germania-Italia perché il televisore di casa è guasto) e poi convegni, incontri, considerazioni personali sulla propria esistenza, spezzata improvvisamente in una mattina di fine estate. «Non sapevo nemmeno chi fosse Rosario Livatino», spiega Gaetano Puzzangaro, uno dei quattro killer del commando omicida che ha testimoniato per la causa di beatificazione, «quella mattina speravo che Livatino non uscisse di casa o facesse un'altra strada: eravamo dei ragazzini poco più che ventenni, ci avevano detto che il magistrato lavorava contro noi giovani, che favoriva i nostri rivali. Soltanto dopo ho capito che quell'uomo stava lavorando anche per noi, per il nostro futuro. E ho voluto testimoniare per la sua causa perché glielo dovevo».
«Livatino aveva anche rinunciato al matrimonio per non coinvolgere altri innocenti», spiega il Postulatore monsignor Bertolone, «se il magistrato sarà dichiarato Beato dalla Chiesa, potrebbe diventare Patrono di tutti gli operatori della giustizia: ma questo potrà avvenire soltanto se una folla di fedeli e l'arcivescovo di Agrigento sottoporranno una richiesta ufficiale alla Santa Sede».
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