
Dmitry Peskov da Mosca: «È molto importante che qualcuno costringa Zelensky a cambiare posizione, lui non vuole la pace», ha detto il portavoce di Vladimir Putin, che ha anche falsamente attribuito al presidente ucraino tutte le responsabilità del disastroso scontro alla Casa Bianca con Donald Trump e il suo vice JD Vance. Da Washington la musica suonata è perfino peggiore, perché esplicita ciò che i russi sottintendono: il presidente ucraino deve sottomettersi o dimettersi. «Zelensky al momento non ha altra scelta che fare marcia indietro e accettare i termini posti da Trump», ha scritto sul social Truth (in russo si dice, per notevole coincidenza, Pravda) il presidente Usa parlando in terza persona. «O Zelensky torna alla ragione e ai negoziati con gratitudine, o qualcun altro deve guidare l'Ucraina per farlo», ha rincarato la dose lo speaker repubblicano della Camera Mike Johnson.
Difficile negare la perfetta consonanza tra Putin e Trump. Entrambi vogliono ridurre Zelensky a nolente ma obbligato firmatario di intese che non condivide, e poi liberarsene con le buone o con le cattive. Così facendo, Trump va contro i sentimenti degli americani, che al 52% sostengono Kiev contro un misero 4% pro Mosca. Non meraviglia che Peskov, in un raro momento di sincerità, abbia detto che ormai le linee guida di politica estera russa e americana «coincidono di fatto e che fino a pochissimo tempo fa non lo avremmo mai creduto possibile». E a chi gli ha chiesto se Putin avesse sentito Trump in questi giorni, Peskov ha risposto in sostanza ammettendolo: «Dopo il 12 febbraio, non vi è stato tra loro alcun contatto che debba essere reso pubblico».
L'aspetto che più entusiasma il Cremlino è l'avvio, già riscontrabile nelle parole di Peskov, «di un processo di frammentazione dell'Occidente», che è poi l'obiettivo comune di Putin e di Trump. Il primo conta di sfruttare la frattura transatlantica per rilanciare una politica espansionistica in Europa, mentre il secondo punta a distruggere l'Unione Europea per trarre i maggiori possibili vantaggi economici da negoziati commerciali separati tra Washington e ogni singolo Paese europeo, anziché con un blocco compatto. Peskov non ha mancato di definire i Paesi europei che intendono continuare a sostenere militarmente l'Ucraina «un partito della guerra», sorvolando sul fatto che la Russia sta continuando la sua guerra criminale con ogni mezzo disponibile e che quando parla di «negoziati di pace» intende l'imposizione di tutti quelli che definisce «i propri immodificabili obiettivi».
C'è in tutto questo un «problemino»: Zelensky non ci sta né a esser tolto di mezzo né a sottoscrivere condizioni di pace che ritenga inique per il suo Paese. Il presidente ucraino conta sul sostegno degli alleati europei, ai quali si sente in tutto parificato. «Nel prossimo futuro ha detto all'indomani del summit euroatlantico di Londra tutti noi in Europa daremo forma alle nostre posizioni comuni: le linee che dobbiamo raggiungere e quelle su cui non possiamo scendere a compromessi. Queste posizioni presenteremo ai nostri partner negli Usa: la nostra priorità condivisa è una pace solida, duratura e giusta. Ci aspettiamo garanzie di sicurezza molto specifiche e non intendiamo cedere nostri territori occupati, che per noi saranno solo temporaneamente occupati». Poi un ultimo messaggio a Washington: «Contiamo molto sul sostegno degli Stati Uniti nel cammino verso la pace. La pace è necessaria il prima possibile».
Distanze incolmabili con l'asse russo-americano, dunque. E sulle sue dimissioni? Zelensky, che Trump aveva definito falsamente «dittatore» prima ancora di incontrarlo, ha detto chiaro che «non sarà così facile sostituirmi.
Avrò completato la mia missione se ci sarà la Nato e la fine della guerra. Altrimenti nessuno potrà impedire la mia ricandidatura». A meno che «qualcuno» non stia già considerando di assassinarlo, modalità non inusuale presso certi regimi.
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